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Le tensioni sulla produzione Opec+ e le petroliere che cambiano bandiera

Di Emanuele Rossi e Matteo Turato

La notizia di un aumento della produzione Opec+ è stata subito smentita dai sauditi, ma cela una tensione che dura da mesi. Intanto Grecia, Malta e Cipro lanciano l’allarme sulle proprie petroliere che abbandonano la bandiera europea per preferire ownership extracomunitarie, nel tentativo di proseguire gli affari importando petrolio russo. Le misure dell’Ue e del G7 mirano congiuntamente a stabilire un embargo (quasi) totale e un price cap che interrompano i proventi di cui la Russia ha un bisogno disperato

L’Opec aumenta la produzione, anzi no

Quando ieri, lunedì 21 novembre, il Wall Street Journal ha fatto uscire la notizia secondo cui erano in corso delle discussioni all’interno dell’Opec+ (l’organizzazione dei produttori di petrolio a cui partecipa anche la Russia) sulla possibilità di rialzare le produzioni, il prezzo del greggio Brent è sceso a 85 dollari al barile. È la prima volta da settembre che si è toccata una cifra così bassa.

L’agenzia di stampa statale saudita SPA ha immediatamente ha riportato una smentita. “È noto che l’Opec+ non discute alcuna decisione prima della riunione”, ha dichiarato Abdulaziz bin Salman Al-Saud, ministro dell’Energia di Riad, riferendosi alla prossima riunione del gruppo che si terrà a dicembre.

Quasi contemporaneamente il ministro dell’Energia emiratino, Suhail Mohamed Al Mazrouei, ha replicato sul suo account Twitter istituzionale: “Gli Emirati Arabi Uniti negano di essere impegnati in discussioni con altri membri dell’Opec+ per modificare l’ultimo accordo valido fino alla fine del 2023. Rimaniamo impegnati nell’obiettivo dell’Opec + di bilanciare il mercato petrolifero e sosterremo qualsiasi decisione per raggiungere tale obiettivo”.

L’accordo a cui fa riferimento l’emiratino è quello con cui l’Opec+ ha deciso (a inizio ottobre) di tagliare 2 milioni di barili di produzioni quotidiane con l’obiettivo di evitare un’eccessiva volatilità dei prezzi – che sembra caratterizzare il mercato del petrolio in questo momento. L’organizzazione – soprattutto i sauditi, ma anche i russi – intende rialzare i prezzi almeno attorno ai 100 dollari al barile. Una cifra considerata più stabile e sicura.

La decisione dei tagli era stata aspramente criticata dagli Stati Uniti, perché considerata come una mossa a favore della Russia. Washington e alleati stanno cerando di bloccare le vendite di prodotti energetici russi come misura per colpire Mosca. Il bilancio pubblico russo è strettamente vincolato alla vendita di materie prime energetiche, e chiudere i rubinetti commerciali significa mettere in difficoltà il Cremlino – in definitiva, farlo restare senza fondi per finanziare le attività pubbliche, dunque creare processi di tensioni sociali, e per spingere le spese militari dell’invasione ucraina.

Rialzare i prezzi del greggio significa facilitare Vladimir Putin, ma per nazioni come l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi mantenere certe cifre è una necessità strategica. Per questo l’indiscrezione uscita sul WSJ a proposito di un rialzo dei prezzi è stata subito assorbita dai media e soprattutto dal mercato, creando volatilità sui valori del greggio. Per la stessa ragione è stata rapidamente smentita, anche per evitare che sembrasse in atto un processo di retromarcia, magari spinto da divisioni interne all’Opec (fronte Golfo, da cui arrivano anche le parole di Al Mazrouei).

Le petroliere, intanto, cambiano bandiera, per continuare a trasportare greggio russo

Alcune navi petroliere delle flotte di Cipro, Malta e Grecia stanno abbandonando i registri europei per battere bandiere extracomunitarie come quelle turche, cinesi, indiane, o di paradisi fiscali. Il fenomeno è correlato alla decisione dell’Unione Europea e del G7 di imporre restrizioni al commercio di prodotti petroliferi della Federazione Russa a seguito dell’invasione dell’Ucraina.

In termini assoluti, ad oggi sono poche le navi che hanno effettivamente cambiato bandiera (per la Grecia solo 10 su 449), ma è significativo che il fenomeno sia in aumento dall’inizio di ottobre, ovvero da quando si cominciava ad avere sentore che un ban sui prodotti petroliferi russi si sarebbe concretizzato.

Come riportano le diplomazie di Grecia, Malta e Cipro, le petroliere che cambiano bandiera vanno a ingrossare le fila della cosiddetta global dark fleet, ovvero quell’insieme di navi che si occupano di trasporto illegale di crude oil passando sotto ai radar delle sanzioni. Un’attività assai remunerativa, dati gli elevati rischi che corrono.

Le preoccupazioni dei Paesi mediterranei che si occupano di trasporto di idrocarburi erano emerse già a maggio scorso, quando Malta e Grecia – le cui navi rappresentano più della metà della capacità di carico europea – erano riuscite a far saltare il divieto per le petroliere battenti bandiera europea di trasportare petrolio russo. C’è da dire che le istituzioni europee hanno risposto alle obiezioni attuali ricordando di avere già fatto concessioni per attutire l’impatto sulle economie europee più dipendenti.

Domani, mercoledì 23 novembre, il G7 dovrebbe annunciare il tanto atteso tetto al prezzo del petrolio, in un’azione che mira a impedire alle compagnie di navigazione di trasportare il prodotto, a meno che non venga venduto al di sotto del prezzo concordato.

L’intreccio tra misure dell’Ue e misure del G7 deriva dalla dimensione globale di un mercato estremamente complesso che, per essere alterato, richiede l’intervento di più attori possibili. Soprattutto l’intervento di Regno Unito e Stati Uniti rimane cruciale per l’influenza che i due possono esercitare su altre bandiere-chiave tra cui Liberia, Isole Marshall e Panama.

In Europa, le importazioni dalla Russia di carbone sono state gradualmente eliminate, le forniture di gas naturale drasticamente ridotte, e dal 5 dicembre 2022 entreranno in vigore le misure di embargo Ue su quasi tutto il petrolio.

Domani ci si aspetta che il G7 comunichi la propria decisione finale a proposito del limite di prezzo da applicare al crude oil. I principali parametri di riferimento riportati dalla segretaria del Tesoro statunitense, Janet Yellen, dovrebbero essere i costi marginali di produzione russi e lo storico dei prezzi. La stessa Yellen ha smentito le voci che circolavano su un possibile cap a $60 dollari, sostenendo che sarebbe una cifra ugualmente profittevole per Mosca.

La strategia delle misure del G7 è quella di proibire alle compagnie assicurative di coprire i rischi del trasporto via nave, a meno che il prodotto non venga venduto sotto la soglia di prezzo concordata. La misura dovrebbe rivelarsi efficace, visto che le navi non assicurate non ricevono l’autorizzazione a entrare nei porti, come ha fatto notare la Turchia, che dall’1 dicembre richiederà che le petroliere mostrino i documenti assicurativi per passare attraverso gli Stretti.



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