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Stop alle telecamere cinesi nei ministeri. La scelta britannica

La decisione riflette “la crescente preoccupazione dei governi di tutto il mondo per il fatto che le aziende cinesi gestiscono i loro dati a Pechino”, ha spiegato l’esperto Sacks. Ecco perché la mossa interessa anche l’Italia

Il governo britannico ha deciso: stop all’installazione di telecamere di sorveglianza “made in China” negli edifici critici dei dipartimenti per ragioni di sicurezza. Pochi giorni fa il primo ministro Rishi Sunak aveva definito la Cina una “sfida sistemica” per il Regno, “senza dubbio la più grande minaccia statale alla nostra sicurezza economica”. 

LA SPIEGAZIONE DEL GOVERNO

La decisione arriva dopo un’indagine sui “possibili rischi di sicurezza attuali e futuri associati all’installazione di sistemi di videosorveglianza nelle proprietà del governo”, ha scritto Oliver Dowden, cancelliere del Ducato di Lancaster, in una dichiarazione scritta al Parlamento. “L’indagine ha concluso che, alla luce della minaccia per il Regno Unito e della crescente capacità e connettività di questi sistemi, sono necessari ulteriori controlli”, si legge. A luglio l’organizzazione Big Brother Watch aveva rivelato che la maggior parte degli enti pubblici britannici utilizza telecamere di sorveglianza prodotte da due società cinesi, Hikvision o Dahua.

LA DIRETTIVA

La direttiva britannica si applica alle telecamere prodotte da aziende soggette alle leggi cinesi sulla sicurezza e include indicazioni per i dipartimenti affinché scolleghino tali dispositivi dalle reti e prendano in considerazione la possibilità di rimuoverli del tutto. È da mesi ormai che, seguendo quanto fatto dagli Stait Uniti, molti deputati alla Camera dei Comuni chiedono al governo britannico il bando delle telecamere di sicurezza prodotte da Hikvision e Dahua, due aziende cinesi in parte di proprietà dello Stato, per timori legati alla privacy e alla possibilità che i loro prodotti siano collegati a violazioni dei diritti umani in Cina.

LA RISPOSTA CINESE

Mao Ning, portavoce del ministero degli Esteri cinese, ha dichiarato alla stampa che la Cina ha sempre incoraggiato le aziende cinesi che operano all’estero a rispettare le leggi locali. “La Cina si oppone fermamente all’eccessiva estensione del concetto di sicurezza nazionale da parte di alcuni per reprimere irragionevolmente le imprese cinesi”, ha dichiarato.

L’INCHIESTA IPVM

Un’inchiesta del sito specialistico IPVM ha rilevato che alcuni modelli commerciali di telecamere prodotte da Dahua Technology – azienda cinese leader nella manifattura di prodotti di sorveglianza – sarebbero in grado di classificare le persone secondo attributi facciali come “razza”, “colore della pelle” e persino “Xinjiang/Tibet”. Vale a dire, la fisionomia di minoranze etniche.

L’ANALISI

Samm Sacks, senior fellow presso la Yale Law School, ha dichiarato al Financial Times che la decisione riflette “la crescente preoccupazione dei governi di tutto il mondo per il fatto che le aziende cinesi gestiscono i loro dati a Pechino” a causa della mancanza di “una protezione significativa tra le aziende e i servizi di sicurezza”. In pratica, ha continuato, “le aziende cinesi fanno pressione sul governo e sui servizi di sicurezza per quanto riguarda il loro accesso ai dati, cosa di cui non si sente parlare pubblicamente, poiché le aziende non vogliono essere viste come una resistenza al proprio governo”.

E IN ITALIA?

Sia Dahua sia Hikvision sono ancora disponibili – e largamente diffusi – sul suolo italiano, anche nelle strutture più sensibili. Secondo quanto ricostruito da Wired, sono almeno 2.430 gli impianti di sorveglianza targati Hikvision e Dahua acquistati dalle pubbliche amministrazioni, dai piccoli Comuni fino a Palazzo Chigi. Come raccontato su Formiche.net, Dahua è la compagnia scelta dall’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte per installare i termoscanner di Palazzo Chigi. Nella scorsa legislatura un’interrogazione del Partito democratico firmata dai deputati Filippo Sensi e Enrico Borghi chiedeva al governo di alzare l’asticella sulle telecamere cinesi. La strada scelta – almeno per ora – dall’Italia non è quella di escludere determinati fornitori, ma di lavorare in “un contesto di certificazione” delle tecnologie, come ha spiegato Roberto Baldoni, direttore dell’Agenzia per la cybersicurezza. Da luglio, infatti, è attivo il Centro di valutazione e certificazione e nazionale dell’Agenzia per la cybersicurezza che, attraverso i laboratori per i test, è chiamato a valutare la sicurezza e l’affidabilità della tecnologia fornita ai soggetti “essenziali per lo Stato”.

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