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Creatività, ma senza stravolgimenti. La serie su Aldo Moro secondo Tricarico

La serie televisiva su Aldo Moro, “Esterno notte” di Bellocchio, perpetua una narrazione distorta e diffamatoria, non solo verso la politica italiana ma anche verso la cultura della Difesa e le Forze armate. La riflessione del generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa, già capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare

Negli interminabili titoli di coda della serie televisiva “Esterno notte”, l’opera di Marco Bellocchio che rievoca il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, compare tra l’altro la dicitura: “Ogni riferimento a persone ed a fatti realmente accaduti è avvenuto mediante la rielaborazione creativa degli autori”. Si tratta di una formulazione rituale messa lì non certo a sottolineare la creatività del regista o degli autori, quanto per evitare guai giudiziari conseguenti a una narrazione distorta e diffamatoria.

Non è stato necessario frugare più di tanto nella memoria di un fatto terribile vissuto a suo tempo con l’angoscia di ogni italiano, né tantomeno verificare la cronaca dell’epoca, non ve ne è stato bisogno di fronte all’evidenza di un fatto – dirimente nella vicenda – inventato di sana pianta per il quale la “rielaborazione creativa” appare una giustificazione inadeguata, una foglia di fico buona forse per le aule dei tribunali, ma non certo per contrabbandare per arte quello che è invece il frutto di un’ideologia retriva e ammuffita.

Fuori dal vago. Verso la metà del terzo dei sei episodi, si fa stato senza mezzi termini dell’unanime volontà della classe politica di allora, comunisti e socialisti compresi, di adoperarsi per la liberazione di Moro, e dell’opposizione del solo Giulio Andreotti il quale, a giustificazione del parere contrario, riferisce di possibili ammutinamenti, sommosse e caos incontrollabili annunciatigli dai generali; da una sorta di consesso di Capi di Stato maggiore mostrato nelle scene precedenti il summit delle decisioni politiche.

Insomma, Aldo Moro è stato abbandonato al suo fatale destino perché Giulio Andreotti e un manipolo di generali si sono frapposti al patteggiamento con le Brigate Rosse e al pagamento del riscatto.

E questa sarebbe la creatività dell’artista.

Allora, stante la grossolana offesa alla verità storica, viene da chiedersi cosa abbiano rappresentato agli occhi di Bellocchio quegli uomini in divisa, quale oscuro e decisivo potere avessero incarnato quelle uniformi. O cosa può aver alimentato un pregiudizio così basso e volgare verso un uomo dello Stato, Giulio Andreotti, e verso le Forze armate la cui subordinazione al potere politico non è mai stata in discussione.

Ricordo che Andreotti diceva che il tempo è galantuomo e per questo – immagino – non ha voluto rintuzzare in vita, come meritavano, le ignominie che molti, rimasti impuniti, gli hanno attribuito nel corso della sua lunga carriera politica.

Conosco piuttosto bene invece il mondo militare, è il mio habitat da oltre sessant’anni, in pratica la mia vita, e nulla è così lontano dalla realtà come quella di generali con la seppur minima capacità di indirizzo del mondo politico e istituzionale.

Semmai è vero il contrario, ossia una subordinazione a volte troppo accondiscendente, prona, a volte poco dignitosa verso un management spesso – soprattutto negli ultimi anni – dilettantesco e impreparato, inadatto al ruolo.

A scanso di fraintendimenti, troppo spesso ho dovuto notare, e non solo nel mondo militare, una struttura istituzionale di supporto troppo debole e remissiva verso il potere politico, troppo propensa ad assecondare più che a contrastare, nelle forme consentite, superficialità, dilettantismo e impreparazione.

E poi ci si chiede perché in Italia non ci sia una cultura vera della sicurezza e della Difesa.

E poi ci troviamo immersi in scenari densi di insidie per la collettività senza avere la percezione degli strumenti per venirne a capo, con decisori politici che inventano una differenza tra armi offensive e difensive e su questo poggiano la posizione ufficiale del loro partito, sperando che divenga quella del governo.

E poi il nostro Paese decide di partecipare con sistematica regolarità a missioni multinazionali, talvolta belliche, con migliaia di soldati senza una valutazione accurata che affondi le sue radici nella consapevolezza del cittadino e di larga parte di chi li rappresenta.

E poi ci si appresta a varare un cospicuo aumento delle spese per la Difesa senza avere contezza della necessità o utilità della loro destinazione.

A tutto questo porta in ultima analisi un’incultura vera della Difesa, un sentire più diffuso e duro a morire di quanto si pensi, di cui l’opera di Bellocchio è un incistamento purulento, una ferita infetta in un corpo cui comunque vengono poi richieste, senza batter ciglio, le prestazioni di un corpo sano, quelle di chi ha alle spalle il consenso di un’intera nazione.

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