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Riforme giudiziarie in cambio dell’accesso ai fondi europei. Il piano di Orban

Nell’ultimo anno le mosse filo-russe del governo di Orban non hanno fatto che inasprire le relazioni tra Budapest e Bruxelles, già tese da anni. L’economia ungherese ha bisogno dei fondi comunitari e questo potrebbe essere il momento buono, ma la strada è lunga e in salita. Ora vedremo all’opera gli “strumenti” che Ursula von der Leyen aveva paventato anche per l’Italia in caso di deviazione dall’asse europeo

L’Ungheria ha proposto di attuare una serie di riforme giudiziarie nel tentativo di sbloccare €5,8 miliardi di sovvenzioni europee del Recovery fund, riferisce Politico.

Le relazioni tra Budapest e Bruxelles sono tese da sempre, soprattutto con l’istrionico primo ministro Viktor Orban, ma quest’anno in particolare ha visto un deterioramento senza precedenti. Oltre al solito discorso sulla carenza dello stato di diritto e della separazione dei poteri tipica di uno stato democratico, si aggiunge che negli ultimi mesi l’Ungheria si è opposta alle sanzioni contro la Russia, non ha appoggiato il pacchetto di aiuti all’Ucraina, e ha posto il veto sulla proposta di una tassazione minima per le multinazionali, spingendo le istituzioni europee a trattenere fondi equivalenti all’8.5 per cento del Pil nazionale.

Ora sembrerebbe che le due parti stiano per raggiungere un accordo: l’erogazione dei fondi in cambio dell’indipendenza giudiziaria. L’approvazione dovrà passare sia dalla Commissione sia dal Consiglio Europeo prima della fine dell’anno, altrimenti Budapest rischierà di perdere il 70 per cento delle sovvenzioni.

I negoziati tra Budapest e Bruxelles seguono due filoni diversi. Uno è l’accesso ungherese ai fondi per la ripresa post-pandemica, l’altro è l’accesso ai normali fondi europei, la cui erogazione è soggetta al rispetto di alcuni parametri da parte degli Stati membri, tra cui il rispetto della rule of law, dello stato di diritto. La Commissione Europea ha sospeso, a settembre, circa €7.5 miliardi dal budget dei fondi regolari, promettendo di sbloccarli se l’Ungheria avesse messo in atto diciassette impegni che aveva precedentemente assunto. Se non verranno completati questi obiettivi entro il 19 novembre, i fondi andranno perduti. Altri €14,9 miliardi sono i fondi pandemici, anch’essi congelati.

Il fatto è che l’economia ungherese avrebbe un gran bisogno di quei soldi. L’inflazione ha toccato il 20 per cento a settembre, un aumento di cinque punti rispetto al mese precedente. Dati inquietanti, soprattutto contando che si riferiscono alla core inflation, ovvero all’inflazione calcolata senza le voci energetiche. A questo si aggiungono le forti proteste dei sindacati, soprattutto degli insegnanti, che chiedono aumenti salariali.

La Commissione vorrebbe utilizzare le proposte di Budapest come traccia le riforme da proporre come necessarie per l’accesso al Resilience and Recovery Fund. Come ha fatto notare Mujtaba Rahman su Politico, una volta che Orbán avrà presentato i suoi piani ci vorranno almeno altri tre mesi perché l’Ungheria raggiunga i suoi obiettivi intermedi, e altri mesi ancora per mettere insieme tutta la burocrazia operativa e finanziaria che precede l’erogazione, facendola slittare almeno alla metà del prossimo anno.

Nel quadro più ampio, l’Unione Europea vuole apparire unita di fronte alla crisi ucraina, e il sostegno dell’Ungheria è necessario per implementare l’embargo sul petrolio russo e in generale sull’energia.

Non sarà semplice. Alcuni funzionari temono che fare ulteriori pressioni su Orbán possa spingerlo ad avvicinarsi sempre di più a Vladimir Putin, data la già esistente amicizia tra Budapest e Mosca. Inoltre, alcuni Paesi, come l’Olanda, vogliono che l’Unione sia più dura con i membri che pongono minacce allo stato di diritto, e diversi gruppi della società civile sostengono che non ci si possa fidare degli impegni di Orban, ricordando tra l’altro le promesse fatte e mai mantenute sulla lotta alla corruzione.

Questi eventi, per quanto diversi per gravità e contesto, potrebbero ricordare al nuovo governo italiano che la Commissione Europea ha gli strumenti per bloccare, o almeno influenzare fortemente, le scelte nazionali non in linea con i parametri comunitari.

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