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Se Trump non vince, Biden non perde. Scrive Filippo Sensi

Certo, la Camera dovrebbe andare ai repubblicani. Certo, il Senato resta in bilico, appeso forse a un ballottaggio in Georgia. Certo, il conteggio e riconteggio dei voti postali e a distanza potrebbe impiegare un po’ di tempo. Ma la malconcia diga democratica ha tenuto, tutto sommato. Come sono andati i trumpiani? Non benissimo. L’analisi di Filippo Sensi

Come è andata, insomma, la notte del midterm negli Usa, il voto più atteso dopo quello per la Casa Bianca? Se si guarda alle elevate aspettative dei repubblicani, gonfiate soprattutto da una scommessa sull’inflazione che morde, non così bene: doveva essere una valanga, poi un onda rossa, alla fine siamo sempre lì, negli Stati Disuniti – anzi divisi in due – di America.

Certo, la Camera dovrebbe andare ai repubblicani. Certo, il Senato resta in bilico, appeso forse a un ballottaggio in Georgia. Certo, il conteggio e riconteggio dei voti postali e a distanza – che hanno avuto un peso non trascurabile nell’esito finale – potrebbe impiegare un po’ di tempo. Ma la malconcia diga democratica ha tenuto, tutto sommato, e bene. E se anche Camera e Senato andassero al partito di Trump, di sicuro il risultato di Biden non sarebbe, comunque, pessimo.

Con molti governatori blu, referendum (in particolare sull’aborto, dopo la Corte Suprema su Roe vs Wade) vincenti e alcune imprese – come quella di Fetterman in Pennsylvania – che promettono bene per il 2024. Bisognerà guardare bene dentro la demografia del voto, le donne, i giovani, latinos e black.

Come sono andati i trumpiani? Non benissimo. È vero che, nel conto del New York Times, sono circa 200 gli eletti che si dicono pronti a non riconoscere la legittimità dell’altra parte, a negare gli esiti del voto e a ventilare brogli e pasticci democratici. Ma il trionfo di Ron DeSantis in Florida – possibile sfidante di Trump alle primarie GOP – e una non brillante prestazione di tanti candidati che avevano avuto il forte endorsement dell’ex-presidente agitano l’anima repubblicana e la strategia da mettere in campo per tentare la reconquista di qui a due anni.

Alla fine, la democrazia, con le sue regole, con la sua fatica, ha avuto la meglio – quale che sia il risultato finale della tornata – sugli orfani del 6 gennaio e dell’assalto a Capitol Hill. Parafrasando l’adagio di uno che di elezioni se ne intendeva, Bill Clinton, it’s democracy, stupid. Vale per Trump e per la spallata non riuscita. Vale per i repubblicani che devono capire cosa è andato male e quale strada devono prendere per tornare alla Casa Bianca. Vale anche per i democratici con un presidente che tiene, nonostante tutto, e un equilibrio però difficile da trovare tra l’anima tutta sinistra e diritti, che pure hanno giocato un ruolo nel voto (le sandersiane della Squad sono state tutte rielette) e quella più economia e sicurezza, più centrista (Fetterman potrebbe esserne l’icona).

Ci sono due anni di tempo per la sintonia fine. L’anatra, intanto, non è zoppa.

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