L’Italia è in procinto di adottare la direttiva europea, che assieme a Dsa e Dma ridisegnerà i rapporti di forza tra chi produce contenuti e chi li veicola nella sfera digitale. In questa intervista a Formiche.net, l’esperto e ceo di Sensemakers (ComScore-Italia) anticipa i cambiamenti in arrivo
La rivoluzione digitale ha infranto il modello di business tradizionale dell’editoria. Come altri Paesi in giro per il mondo, quelli europei cercano da anni di trovare un nuovo equilibrio tra gli editori e le piattaforme digitali che veicolano sempre più il loro contenuto. Nel 2019 la risposta di Bruxelles si è concretizzata nella cosiddetta direttiva copyright, da adottare entro l’estate 2021. Poco meno della metà dei Paesi, Italia inclusa, devono ancora completare l’iter, ma nel nostro caso la trasposizione è quasi conclusa. Così Formiche.net ha raggiunto Fabrizio Angelini, ceo di Sensemakers (ComScore-Italia), per fare il punto della situazione.
Siamo quasi al dunque. Come commenta la normativa in arrivo?
C’è grande attesa per la sua pubblicazione. La stessa Fieg (Federazione Italiana Editori Giornali, ndr) ha spinto perché venga emanata il prima possibile. Quello che so dalla nostra partecipazione come IAB alla consultazione pubblica è che l’Agcom (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, ndr) ha affrontato una questione molto complessa con un grado di approfondimento e attenzione ai massimi livelli. Ora tocca aspettare di vedere cosa uscirà; il provvedimento dovrebbe essere emanato nelle prossime settimane. Questione di giorni, da quello che dice il mercato.
Altrove in Ue l’implementazione della direttiva copyright ha introdotto una nuova dinamica tra editoria e giganti del web, portandoli a stipulare nuovi accordi su diffusione dei contenuti e retribuzione. Sarà così anche in Italia?
Visto lo schema di regolamento, dovrebbe agire sulla falsariga di quelli degli altri Paesi – anche se la versione italiana ha gradi di approfondimento e incisività potenzialmente superiori. Mi aspetto che ci si assesti su impostazioni simili. So che Google sta facendo accordi diretti con molti editori ed esistono contratti già sottoscritti; è prevista un’intensa negoziazione tra le parti a prescindere da quello che dovrebbe essere l’applicazione della direttiva.
Crede che la nuova legge bilancerà la relazione tra Big Tech ed editoria?
Immagino che sia interesse di tutto il mercato, incluse le grandi aziende tecnologiche, trovare il giusto compromesso. Certo dipenderà da come saranno scritti i provvedimenti e quanto le parti saranno disposte a venirsi incontro. Cosa che faranno, penso, perché la tensione non fa bene a nessuno.
Di recente, in Repubblica ceca, Google ha rimosso l’anteprima degli articoli sui suoi servizi per quello che ha definito un’interpretazione troppo estrema della direttiva copyright.
Speriamo che da noi non succeda, la quantità di traffico che Google reindirizza verso i siti è molto significativa. I grandi editori hanno una forte capacità di attrazione dell’audience e il potere per negoziare con Google o simili. Poi c’è tutto quel mondo di editori medio-piccoli che sicuramente potrebbero essere i più impattati, essendo i più “scoperti”.
La nuova legge garantisce a questi degli strumenti per tutelarsi?
La normativa dà una cornice legale di riferimento, e l’Agcom l’ha scritta tenendo a mente l’editoria di qualità. Avere quel quadro normativo sicuramente aiuta, specie le realtà più piccole, perché semplifica e facilita la negoziazione tra le piccole-medie realtà e un Google di turno.
Negli ultimi quindici anni l’editoria globale ha perso circa tre quarti dei proventi pubblicitari, a favore delle grandi piattaforme web. Crede che la nuova normativa possa riequilibrare, anche solo parzialmente, questa dinamica?
Negli altri Paesi le cifre che i giganti tecnologici riconoscono agli editori non sono tali da cambiare l’ecosistema, ma rimangono importanti. È giusto che ci sia una logica distributiva – l’editoria di qualità richiede una compensazione bilanciata – ma non mi immagino impatti dirompenti sugli equilibri attuali. Certamente la normativa darà un suo contributo.
E in caso non funzionasse a dovere?
Nel caso, le leve da attivare sono su altri fronti. Come quello dell’antitrust, delle costellazioni di loyalty e della capacità dei giganti tech di profilare in maniera dettagliata le rispettive audience e creare infrastrutture di servizi che effettivamente “chiudono” il business all’interno di un dato ecosistema. Intervenire su questi aspetti può cambiare gli equilibri.
Parole che evocano i nuovi pacchetti-legge europei – il Digital Services Act e il Digital Markets Act – che entreranno in vigore nel 2023.
Esatto. Quei tipi di provvedimenti, se ben applicati, possono avere un impatto significativo. Potrebbero riuscire a regolamentare alcune attività potenzialmente anticoncorrenziali, le competizioni a due versanti, modelli di business che offrono prodotti gratuitamente ma con costi nascosti…
E, di riflesso, aiutare a pareggiare la partita tra editoria e giganti tech?
Penso di sì. Dsa e Dma sono passi importanti e possono cominciare a riequilibrare il settore. Ma attenzione: le aziende Big Tech guadagnano meritoriamente perché hanno costruito un nuovo sistema. Se la gente si iscrive volentieri e condivide i propri dati senza particolari riserve, vuol dire che abbraccia il loro modello. A ogni modo, oggi il piano di gioco rimane sbilanciato; l’editoria di qualità ha costi legati alla verifica del dato e alla responsabilità editoriale che vanno assolutamente tutelati.
La parabola del Gdpr, la maxi-legge europea sulla privacy che ha dimostrato la complessità di regolamentare la sfera digitale su scala europea, porta molti a guardare a questi nuovi sforzi con sospetto.
Vediamo – questo è un mondo in cui non succede nulla per anni, e poi da un giorno all’altro accade il finimondo. Finora la normativa sul copyright sembra molto approfondita e ben fatta, non posso prevedere cosa genererà ma la fase istruttoria è stata seria e attenta. La difficoltà evidente, il livello di complessità ulteriore, è che il grosso delle informazioni sono controllate da un solo soggetto in causa. E se questo decide di non condividere le informazioni, il terreno rimane falsato. Se funzionano, Dsa e Dma dovrebbero portare un po’ di trasparenza sulle metriche e sulla misurazione, perché le piattaforme dovranno rendere disponibili a investitori o enti terzi di certificazione le modalità di pianificazione e il tipo di metriche che utilizzano.