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Più democrazia economica, il Pd volti pagina. I suggerimenti di De Tomaso

Più che insistere nella battaglia contro un neoliberismo che non c’è, il Partito democratico dovrebbe combattere per una democrazia economica tutta da costruire. Potrebbe presentarsi davanti agli avversari e al Paese come la forza delle pari opportunità sul mercato, contrapposta a una destra che difende privilegi più o meno corporativi. Il commento di Giuseppe De Tomaso

Già il buon Guido Carli (1914-1993), ministro e governatore della Banca d’Italia, denunciava le profonde tracce di socialismo reale nell’economia italiana. Eppure, oggi, nonostante la continua avanzata della mano pubblica, c’è chi addebita al cosiddetto neoliberismo l’origine di tutti i problemi nazionali, persino della corruzione endemica. Un tambureggiante atto di accusa contro il neoliberismo sta caratterizzando il dibattito a sinistra, in particolare tra i dirigenti del Pd impegnati nella fase precongressuale. Anche perché le cifre, imponenti, sull’invadenza dello Stato nelle attività economiche del Belpaese, contano meno di un gol in palese fuorigioco. Nessuno se ne preoccupa o vi presta attenzione. Quello che più conta per molti, invece, è solo la verità dogmatica. In questo caso: se la sinistra è in crisi – ecco il tam-tam assordante – lo si deve al fatto che essa non ha saputo opporsi al liberismo dilagante. Un liberismo, come accennato, piuttosto immaginario, alla luce della voglia matta dello Stato padrone di allargare ancora i suoi confini e le sue proprietà.

Nemmeno la constatazione che lo spostamento a sinistra, verificatosi con le segreterie di Nicola Zingaretti e di Enrico Letta, non ha prodotto benefìci elettorali al Pd, è servita ad assolvere il neoliberismo dall’accusa di aver causato la crisi della Ditta. Fatta eccezione per una frangia di riformisti, il fantomatico neoliberismo è sistematicamente collocato al primo posto nel banco degli imputati per l’erosione dei consensi.

E pensare che a metà degli anni Novanta l’allora Pds organizzò a Roma un congresso programmatico che si proponeva gobettianamente la rivoluzione liberale. E pensare che il Pd nacque con l’obiettivo di imitare l’esperienza del Partito democratico americano che di sicuro non era un simbolo di statalismo. E pensare che le sporadiche liberalizzazioni realizzate in Italia qualche lustro addietro portano la firma di un pezzo da novanta (Pierluigi Bersani) della dirigenza Pd. Come sia stato possibile che nel giro di pochi anni, la sinistra abbia mollato la presa sul riformismo socialdemocratico per accostarsi a un mix di massimalismo e populismo, sarà materia per gli storici che verranno. Né è convincente la spiegazione che assegna ogni colpa a Matteo Renzi, dal momento che ben prima dell’irruzione in scena dell’ex Rottamatore il Pd aveva fatto sua la causa del riformismo-riformismo. Tanto meno è convincente l’analisi che attribuisce ogni colpa al principio della vocazione maggioritaria che ispirò il battesimo del Pd. Quel Pd veltroniano oltrepassò quota 33% in cabina elettorale, traguardo mai sfiorato da nessuno dei successivi diadochi. Quindi?

Piuttosto, come testé lasciavamo intendere, è sul piano dei contenuti programmatici, più che sulla scacchiera dei posizionamenti politici, che il Pd dà l’impressione di voler archiviare la propria stagione di riformismo puro. Eppure una sinistra liberale avrebbe un’autostrada davanti a sé per correre. L’avrebbe anche o soprattutto perché la destra italiana non è assimilabile al liberalismo anglosassone e/o americano. Infatti. La destra italiana è, in larga parte, ancora corporativa e populistica. Tra i suoi punti di riferimento non spiccano né Ludwig von Mises (1881-1973) né Friedrich von Hayek (1889-1992), semmai molti campioni del protezionismo e delle sue varianti.

Attenzione. Qui non si sta suggerendo al Pd di varare una spregiudicata operazione trasformistica a 360 gradi con l’implicito retropensiero di sottrarre ai partiti di destra parecchie pagine del loro libro programmatico. Qui si sta suggerendo al Pd di ritornare allo spirito e alla lettera del proprio originario manifesto politico-economico. Magari con qualche piccolo aggiornamento.

Ad esempio. Se la destra italiana è ancora sensibile alle sirene del corporativismo, che poi è una versione semantica dell’assemblaggio tra corporativismo, monopolismo, populismo e protezionismo, la sinistra liberaldemocratica e/o socialdemocratica può o potrebbe contrapporle l’obiettivo di una democrazia economica compiuta che renda il consumatore sempre più protagonista, decisore. E siccome la maggioranza dei consumatori è formata da milioni di lavoratori dipendenti e di piccoli lavoratori autonomi, ecco che la lotta ai monopòli e alle rendite corporativistiche si trasformerebbe ipso facto in un beneficio per il portafogli dei ceti meno danarosi, quelli che non dimorano nelle Ztl e che nelle ultime tornate elettorali non hanno premiato le liste del Partito democratico.

Insomma. Più che insistere nella battaglia contro un neoliberismo che non c’è, il Pd dovrebbe invece combattere per una democrazia economica tutta da costruire. Potrebbe presentarsi davanti agli avversari e al Paese più o meno così: noi siamo la forza delle pari opportunità sul mercato, voi altri a destra siete i difensori dei privilegi più o meno corporativi; se voi intendete il mercato come serra calda di rendite e come fabbriche di monopòli, noi vogliamo trasformare il mercato nel terreno di gioco per eccellenza della democrazia economica, dove sono i consumatori, ossia le grandi masse a pronunciare l’ultima parola, non le grandi corporazioni o gli oligopòli. Sposare questa linea potrebbe significare, per il Pd, aprirsi uno spazio siderale. Invece.

Invece, nell’attuale dibattito interno al Pd non solo non si ravvisa un’idea di mondo o di società da parte dei candidati al dopo-Letta, ma non si coglie alcun frammento concettuale moderno sul grande tema della produzione, degli scambi, della distribuzione e della crescita economica. Viceversa, il collante che unisce i concorrenti alla segreteria, soltanto per estrazione assai diversi tra loro, è la lotta al liberismo, qualunque cosa essa voglia dire in un Paese che già la buonanima di Carli etichettava come il più sovietico del sistema occidentale.

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