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Dalla democrazia 2.0 alla muskcrazia. L’analisi di Giordano

La muskcrazia è un chiaro “strumento di potere politico”, nel momento in cui attribuisce dei diritti solo a coloro che hanno accettato precisi doveri. L’analisi di Domenico Giordano, Arcadia

“L’idea del nuovo padre-padrone dei Social – ha scritto qualche giorno fa Massimo Giannini, a proposito di Elon Musk – è chiara: fare di Twitter la Digital Agorà del Ventunesimo Secolo”. A questa mutazione, a quanto pare, Musk sta lavorando sin dal primo giorno in cui si è presentato al 1355 di Market Street, dove si trova il quartier generale di Twitter a San Francisco, con un lavandino in braccio.

Solo che la curvatura imposta dal tycoon sudafricano sta confinando i follower in una voliera fatta di filo spinato, altro che agorà polifonica e plurale. È come se stessimo assistendo, dall’interno per coloro che sono iscritti al social, alla costruzione di uno spazio a basso voltaggio dialettico, una variante che potremmo ribattezzare come muskcrazia, cioè una riduzione dell’ambiente digitale dove la dinamica dell’algoritmo non è più modellata, come negli anni pioneristici dei social network, dal confronto reticolare e libero tra gli stessi iscritti.

Insomma, l’algoritmo è svincolato del tutto dalla UX, la user experience come anima nobile dell’Intelligenza artificiale, bensì unicamente dai capricci improvvisi di una sola persona. È in atto un processo metastatico dei diritti costitutivi della democrazia digitale della rete e dei social.

Ma, quali sono gli elementi costitutivi e, al contempo, distintivi della muskcrazia?

Innanzitutto, una restrizione del perimetro di agibilità democratica solo e principalmente a Twitter e di conseguenza una delegittimazione implicita di qualunque altro territorio digitale. In questa ottica, deve essere letta e compresa anche la ratio dei social-sondaggi lanciati da Elon Musk sulla riammissione di Trump e degli account bannati fino a oggi, o della sostanziale fine della moderazione per quei contenuti che riguardano le notizie sul Covid.

Nondimeno, rispetto ai sedici anni precedenti, Twitter si sta ridefinendo secondo una dimensione gerarchica verticale, riducendo lo spazio di quella orizzontale insita nell’ontologia della platform society. Sono, di volta in volta, il capriccio, lo sfizio e la libidine del capo a dettare le regole di ingaggio, a discapito, della natura libertaria che ha fatto fino a oggi la fortuna di tutti i social network. La foto postata l’altra mattina, “my bedside table” dove si vedono sul comodino quattro lattine di diet coke e due pistole, sono la riprova che è solo e soltanto il proprietario della piattaforma con i suoi 120 milioni di follower, a decidere a suo piacimento le direzioni delle polarizzazioni. L’agenda setting della muskcrazia coincide con quella personale del ceo di Twitter, altro non è ammesso, altro non è possibile.

Altro carattere identitario che emerge dopo appena un mese di cura Musk, è la segregazione sociale dei follower, una rigida separazione di classe per tenere lontano i follower di serie A, le élite digitali, da quelli invece che popolano l’anonimato e che non sono neppure degni dell’attenzione del capo. In poco più di trenta giorni, dal 26 ottobre quando Musk completa l’acquisizione della società e fino al 30 novembre, l’account @ElonMusk ha pubblicato 1.023 contenuti generando oltre 140 milioni di interazioni e con 9,6 milioni di nuovi follower. Eppure Musk si è concesso solo alle discussioni che partivano da account verificati e che potevano dare ulteriore viralità alla sua strategia, tra i quali Stephen King, Dan Rather o Alexandria Ocasio-Cortez, ignorando sistematicamente tutti gli altri.

La muskcrazia è un chiaro “strumento di potere politico”, nel momento in cui attribuisce dei diritti solo a coloro che hanno accettato precisi doveri: primo fra tutto che alcune facoltà siano necessariamente a pagamento. Come, per l’appunto, quella di conservare o ottenere la spunta blu.

Nel costo di otto dollari al mese fissato da Musk, non solo c’è una evidente barriera sociale e di classe tra chi può e vuol pagare e chi, al contrario, non è nelle condizioni di farlo, ma c’è tragicamente un’involuzione democratica perché si stabilisce il principio che l’autorevolezza, e di conseguenza la libertà, della parola a mezzo tweet debbano essere a pagamento e mai più concesse a tutti e gratuitamente.

In questa pericolosa curvatura, peraltro ancora da comprendere appieno in quanto tutt’ora in atto, è possibile rintracciare un’ultima matrice identitaria rappresentata dall’alfabeto di riferimento. I tweet di Elon Musk sono quasi sempre costruiti sulla rottura delle convenzioni, intrisi di irriverenza, di locuzioni spicce, popolati di slang. Un linguaggio semantico e visivo che rigetta le buone maniere, ogni forma di manierismo e tutta la grammatica dei ruoli.

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