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Cosa dimostrano le proteste in Iran. L’opinione di Quintavalle

La crisi iraniana non è una guerra dei sessi, ma una rivolta generazionale contro una gerontocrazia. Occorre superare gli stereotipi occidentalisti degli studi di genere per una nuova teoria del cambiamento politico basata sulla libertà riproduttiva della donna. Demografia come anticamera della democrazia. L’intervento di Dario Quintavalle

Di fronte agli eventi che avvengono in paesi lontani e con i quali ha scarsa dimestichezza, l’analista di affari internazionali deve affrontare un duplice sforzo: il primo è raccogliere il maggior numero di informazioni possibili, il secondo è vagliarle sforzandosi di depurarle dall’ottica tipicamente occidentalista con cui queste ci arrivano, preconfezionate con una chiave di lettura, che anche inconsciamente condiziona il punto di vista più imparziale. Questo anche perché la lingua fondamentale dell’ambiente è l’inglese – che immaginiamo essere una lingua franca, quasi un moderno esperanto o latinorum – ma che è invece lo strumento cognitivo principale di una particolare cultura, quella anglosassone, la quale, pur se ambisce o pretende di rappresentare l’universalità concettuale in termini di diritti umani, è invece frutto, soprattutto nell’elaborazione dei neologismi, di un dibattito tutto interno a essa, in particolare agli Stati Uniti.

La prova del nove dell’affermazione di cui sopra è l’Iran. Non sappiamo che esito avranno le rivolte in corso, anzi dobbiamo sollecitare ancora una volta il mondo dei media a non aspettarsi, da noi analisti, virtù profetiche che non abbiamo. Quello che si può dire già da subito è che il framing prevalente nella nostra informazione è quello classico dei gender studies: una rivolta di donne contro il patriarcato maschile.

Ora, è indubitabile che la scintilla che ha dato fuoco alle polveri siano la fine di Mahsa Amini e la particolare violenza che negli ultimi tempi la polizia religiosa iraniana (basij) ha utilizzato nel far rispettare le leggi sul velo. Le scene che ci arrivano da quel Paese ci riportano donne che bruciano l’hijab: cosa che ricorda nostalgicamente, alle femministe nostrane, l’epoca in cui da noi venivano bruciati i reggiseni. Ma sono dati di fatto che i cortei di protesta sono composti sia da maschi sia da femmine e che i primi dimostranti a finire sul patibolo siano stati dei maschi. Giovani uomini e giovani donne marciano insieme: questa non è una rivolta di genere, ma una rivoluzione generazionale che si scontra con quella che è sì una teocrazia, ma soprattutto una gerontocrazia. I giovani dimostranti sono figli di un boom demografico che ha portato il Paese ad avere 85 milioni di abitanti (quanti la Turchia), con un’età media di 27 anni.

Lo slogan delle dimostranti, “donna, vita, libertà” va dunque inteso in senso sequenziale, come un processo: dalle donne procede la vita e dalla vita procede la libertà. Le rivoluzioni camminano sulle gambe dei giovani, come è naturale che sia. L’arma più forte delle donne iraniane è stata la loro straordinaria fertilità. E questo anche sotto un regime che le vedeva in modo paternalistico, come angeli del focolare. Va detto, l’Iran non è l’Afghanistan o l’Arabia Saudita: le donne hanno sempre potuto studiare e guidare, anche i codici di abbigliamento erano meno rigidi che negli altri Paesi citati. A un certo punto il numero delle studentesse era talmente prevalente su quello degli studenti maschi e i loro risultati tanto migliori che sono state introdotte le quote di genere per riequilibrare il rapporto: segno che un mezzo può conseguire fini assai diversi da quello per cui è stato ideato.

Di fronte a questa evidenza, l’armamentario concettuale delle femministe occidentali appare immensamente datato, fermo alle parole d’ordine di cinquant’anni fa. Guardiamo la reazione della sinistra europea alla recente sentenza Dobbs v. Jackson della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America sul diritto all’aborto: a parte che probabilmente nessuno l’ha letta, le successive elezioni di mid-term stanno lì a dimostrare che, svincolato dalla tutela giudiziaria, il totem dell’aborto è tornato a essere un tema politico, suscettibile di libero dibattito. E ai candidati pro-choice, sia democratici sia repubblicani, non è andata affatto male. L’America ha dato ancora una volta una lezione di democrazia. Il fatto è che il tema dell’aborto è sempre meno centrale: tutti vogliamo l’uscita di sicurezza al cinema, ma non è che andiamo al cinema per prendere l’uscita di sicurezza, né il dibattito sul cinema si è incartato per mezzo secolo sulla sicurezza delle sale. Quello che a una generazione di donne cinquanta anni fa appariva un fine, adesso è un mezzo, che può ottenere, come le quote di genere, risultati opposti a quelli attesi.

Per esempio, è dimostrato che l’aborto selettivo praticato in alcuni Paesi, grazie alle moderne tecniche  di screening prenatali, abbia impedito la nascita di almeno 140 milioni di esseri umani di sesso femminile dagli anni Settanta a oggi (fonte: Nazioni Unite). Come si può allora contrabbandare per una conquista della donna, uno strumento che ci consegna delle società prevalentemente maschili, come in Cina?

L’Europa, in stagnazione demografica e rassegnata alla sostituzione etnica come unico antidoto, ha risposto a modo suo, con strumenti legalistici: la Francia vuole introdurre il diritto all’aborto in Costituzione. Il mezzo ancora una volta diventa fine a sé stesso. Va bene, ma è irrilevante: la domanda delle giovani generazioni è ben altra, e si chiama equilibrio vita/lavoro. Non carriera o famiglia, ma tutt’e due. La loro eroina è Sanna Marin. Diventata primo ministro della Finlandia a soli 34 anni senza aver rinunciato né agli studi, né al matrimonio, né ai figli, alterna impeccabili mise ministeriali a completi che ne esaltano la giovane figura; di giorno prende decisioni storiche per il proprio Paese, di sera si abbandona alla gioia di ballare con gli amici. Con buona pace dei workaholic.

Il caso Iran dimostra che la demografia è l’anticamera della democrazia. Nel campo delle relazioni internazionali occorre dunque superare gli stereotipi occidentalisti degli studi di genere per una nuova teoria del cambiamento politico basata sulla libertà riproduttiva della donna. E poi in questo 2022 ci hanno pensato l’ex premier britannica Liz Truss e l’ex vicepresidente del Parlamento europeo Eva Kailī a demolire intere biblioteche di gender studies basate sul preconcetto che le donne al potere siano automaticamente più efficienti e più oneste degli uomini. Insomma, il mondo del futuro sarà democratico e donna, ma solo se nelle dinamiche politiche saremo in grado di prendere adeguatamente in considerazione le nuove richieste della società, per niente rassegnata a vivere solo per il lavoro.

Parafrasando l’ex presidente statunitense Bill Clinton, potremmo dire agli ayatollah iraniani e ai non meno fanatici guardiani del politicamente corretto in Occidente: “it’s the demography, stupid!”.

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