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Gerardo Bianco, l’ultimo “popolare”. Il ritratto di Pisicchio

In questo tempo di inutili esuberanze mediatiche, di ignoranza crassa e di desiderio ingordo di potere, forse la biografia di Bianco racconta una storia desueta, ma non per questo non meritevole d’essere ricordata alle generazioni che non lo conobbero. Come esempio di stile: un gentiluomo raffinato che conosceva bene le regole del gioco e le traduceva in un latino impeccabile. Con le desinenze giuste, sempre

Gerardo Bianco è stato un convinto meridionalista, un grande cattolico-democratico, un raffinato latinista, e queste tre caratteristiche della sua personalità, in cui mitezza e determinazione si mischiavano, forse ne definiscono il senso di una preziosa inattualità, in un tempo grigio, in cui certe qualità sono lette con un canone inverso, che ne ribalta senso e valore.

Fu soprattutto democristiano, anzi “popolare”, che significa qualcosa di diverso, al tempo stesso remoto e vicino, almeno quanto possono essere remote e vicine le ascendenze storiche del popolarismo sturziano e della vicenda che lo vide protagonista della rinascita del popolarismo dopo la fine della Dc, un trentennio fa.

Aveva un tratto umano straordinario, da persona abituata a stare in mezzo al popolo, ad ascoltarne bisogni e speranze, sentimenti e rivendicazioni. Apparteneva a quella specialissima specie di gente irpina, colta e gentile come un gentleman inglese, capace anche di possenti ironie, ma offerte sul vassoio d’argento di un aforisma di Plauto o di Terenzio. E in latino. Dunque poteva scambiare dialoghi classici con gente come Spadolini: avrebbe avuto qualche difficoltà a comunicare con il nuovo ceto, che, diciamo così, dimostra molta dimestichezza con gli algoritmi dei social ma qualche riluttanza con il Latino.

Altre attitudini, in tutta evidenza. Mai inutilmente polemico, mai “hater”: uomo di mediazione e deputato di lunghissimo corso, credeva nella centralità del Parlamento nel nostro sistema costituzionale e nella rappresentanza come effetto della scelta compiuta dal corpo elettorale e non, come avviene oggi, con attraverso la cooptazione degli eletti da parte dei capi-bastone, espropriando il popolo del proprio diritto di selezionare i propri rappresentanti.

Nelle nove legislature in cui fu parlamentare, divenne vice presidente della Camera apprezzato da tutte le forze politiche per la sua imparzialità e la competenza nella gestione dell’aula. Ma la sua indole tendente all’inclusione e non alla contrapposizione e al conflitto, non significò mai cessione di un solo millimetro sul piano dei principi. Fu un uomo dalla moralità totale, che dedicò un’attenzione commovente al rispetto delle regole e della legalità, non facendo mai misurare distanze tra comportamenti pubblici e privati.

Conobbe le procedure parlamentari come pochi, in questo incrociando spesso le battaglie parlamentari di Marco Pannella, a cui lo legava un rapporto di stima sincera, pur nella diversità di visioni. Memorabile fu la sua ascesa alla presidenza del gruppo della Dc nel 1979, a testimonianza del suo senso di insofferenza agli atti d’imperio e della convinzione che in una democrazia parlamentare il deputato ed il senatore debbano sentirsi liberi dall’imposizione del partito di appartenenza, perché, come ricorda la Costituzione con l’art.67, ogni parlamentare esercita il suo ruolo libero da mandato imperativo.

La segreteria della Dc aveva designato come presidente del Gruppo alla Camera la persona di Galloni, chiedendo ai deputati di accogliere docilmente la scelta già compiuta dal sinedrio dei capi, ad onta delle procedure democratiche previste con l’espressione del voto. Bianco, che, a differenza di Galloni, aveva un rapporto quotidiano con i parlamentari del gruppo, condividendone la vita – spesso anche carica di frustrazioni – dell’aula e delle commissioni, si candidò in polemica con i vertici e risultò eletto col voto della base parlamentare.

Venne definito dai media come capo dei “peones”, come si chiamavano i braccianti poveri seguaci del messicano Emiliano Zapata, popolo senza potere che riuscì a compiere gesti rivoluzionari. Nella sua lunga carriera- a cui si aggiunge anche una legislatura a Strasburgo (‘94/‘99)- accettò di fare il ministro della Pubblica Istruzione (‘90/‘91) in un governo Andreotti (VI) – ma, per indole, vocazione e desiderio di libertà di espressione, non cercò mai con accanimento poltrone di potere: il suo habitat fu la politica in Parlamento, dove approdò sempre sostenuto da una massa di voti di preferenza.

La geopolitica interna della Dc lo vide militare nel quadrante delle correnti di sinistra: la Base di De Mita, Marcora e del gruppo degli irpini (Mancino, ecc.), e poi la sinistra “sociale” di Carlo Donat Cattin. Diventò anche segretario nazionale del Partito Popolare nel 1995, ma, in fondo, restò sempre un battitore libero. Lucidissimo nelle analisi e nel giudizio sulla politica contemporanea, non mancò mai di incitare all’impegno e allo studio fino agli ultimi giorni della sua vita.

Sicuramente non ha avuto tutto ciò che avrebbe meritato in politica, ma sicuramente ha fatto quello che desiderava. Con l’umiltà dell’uomo colto e addirittura schivo. In questo tempo di inutili esuberanze mediatiche, di ignoranza crassa e di desiderio ingordo di potere, forse la biografia di Bianco racconta una storia desueta, ma non per questo non meritevole d’essere ricordata alle generazioni che non lo conobbero. Come esempio di stile: un gentiluomo raffinato che conosceva bene le regole del gioco e le traduceva in un latino impeccabile. Con le desinenze giuste, sempre.


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