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Intellettuali e politica, quante resistenze sulle riforme liberali. Scrive De Tomaso

Di Giuseppe De Tomaso

Se la Gran Bretagna venne svegliata dalle politiche thatcheriane, l’Italia si ritrovò migliorata grazie alle riforme liberalizzatrici targate Nino Andreatta (1928-2007), per citare il più determinato tra i nostri. Finale. Servirebbe riscoprire la lezione di quegli anni, anche a costo di affrontare la reazione degli intellettuali più recalcitranti. Il commento di Giuseppe De Tomaso

Dura da quasi due secoli l’ostilità di gran parte dell’intellettualità occidentale nei confronti della democrazia liberale. Nemmeno le tragedie vissute nel secolo delle idee assassine, culminate nella cruenta rivalità tra nazismo e stalinismo, hanno indotto certa intelligencija a revocare i propri anatemi contro la società aperta. Anzi. Tuttora, qualunque cosa accada nel mondo, è sempre colpa del mercato, della democrazia borghese, dell’Occidente, dell’Europa, dell’America. Anticapitalismo di destra e anticapitalismo di sinistra si aiutano a vicenda nell’opera di demolizione, non solo culturale, delle conquiste realizzate dopo i secoli bui del privilegio feudale. Chi perseguendo anacronistici nazionalismi, chi invocando autodistruttivi egualitarismi, sta di fatto che mai come oggi le istituzioni liberali sono sottoposti ad attacchi concentrici che un marziano sbarcato sulla Terra giudicherebbe, per tutti, più masochistici di mille martellate sulla propria testa.

Nemmeno la brutale aggressione russa all’Ucraina, provocata essenzialmente dal timore di un contagio democratico nell’impero del nuovo zar, ha modificato convinzioni e pregiudizi sedimentati da decenni, se non da secoli.

Nemmeno la documentata superiorità dell’Occidente, rispetto alle satrapie orientali, confermata anche nella ricerca dei vaccini anti-Covid, ha prodotto qualche crepa nelle fortezze ideologiche dei tifosi della società chiusa. Segno che l’approdo condiviso alla verità dei fatti, nonostante tutte le pompose declamazioni in tal senso, rimane ancora oggi un traguardo più lontano di Marte.

Se, per citare il tema e il titolo (“Il lungo inverno”) dell’ultimo saggio di Federico Rampini – davvero una serrata, implacabile demolizione del combinato disposto tra statalismo salvifico e ambientalismo palingenetico – gli ordinamenti liberaldemocratici dovranno sudare e soffrire assai per uscire indenni dalla morsa autocratica che li sta stringendo, molto dipende e dipenderà dall’atteggiamento, dalle prese di posizione della cultura dominante, in larga parte diffidente verso il mercato, che altro non è che la democrazia economica fondata sulle scelte operate dai consumatori (la democrazia politica, in parallelo, si basa sulle scelte operate dagli elettori).

In Italia la diffidenza verso il mercato trova supporter e proseliti anche negli ambienti culturali più insospettabili, spesso a vario titolo riconducibili al pensiero liberale. Tutta responsabilità di Benedetto Croce (1866-1952), per il quale la libertà economica era di serie B rispetto alla libertà politica di serie A. Risultato: gli statalismi sono duri a morire, a destra e a sinistra, a dispetto di un debito pubblico da infarto.

L’ombra dello Stato padrone sta rifacendo capolino sui dossier più importanti per il nuovo governo: da Tim a Ita, da Mps alla vicenda Lukoil, per non citare gli esempi di capitalismo municipale, cioè di socialismo reale in salsa comunale e regionale. Anche in presenza di una lista di interventi pubblici più lunga di un elenco telefonico, la verità dei fatti fa fatica a farsi strada. Anzi deve arretrare davanti all’avanzata dell’inarrestabile vulgata fideistica, scatenata contro il (presunto) neoliberismo dilagante.

Ora. Che si possa parlare di liberismo in un Paese, la cui ricchezza prodotta annualmente viene, per più di metà, prelevata dallo Stato per fini sociali e distributivi, sarebbe risultato impegnativo pure per un agguerrito sofista dell’antica Grecia. Ma, tant’è. Gli atti di fede non si discutono. Si accettano e basta. Anche a costo di battere il record dei paradossi. Infatti. Più si strilla contro il liberismo montante, più si ottengono risposte statalistiche. Più le risposte statalistiche falliscono e deludono, più si invocano ulteriori iniziative dirigistiche incolpando il liberismo per la persistenza degli insuccessi ottenuti. Insomma, è sempre colpa del liberismo, anche quando e laddove impera lo statalismo più pervasivo.

Che il mercato non sia il Vangelo, è pacifico. Che il mercato, essendo composto da esseri fallibili e imperfetti, ogni tanto faccia cilecca, è scontato. Che, il mercato, essendo sottoposto a continue mutazioni, possa provocare ingiustizie, complicazioni e distorsioni varie, è altrettanto notorio. Per questa ragione, un legislatore intelligente cerca di correggerne le anomalìe, facendo però attenzione a non gettare nel fiume il bambino (l’alta produttività della democrazia economica) insieme con l’acqua sporca (l’economia eterodiretta dalla politica). Se, invece, in preda a conati irresistibili di positivismo giuridico, il legislatore affronta il proprio ruolo istituzionale partorendo un provvedimento dopo l’altro, cioè vincoli sempre più restrittivi, le conseguenze non tardano ad arrivare: caos normativo, paralisi decisionale, stagnazione produttiva.

Tutto predefinito, allora? È ormai inevitabile la vittoria finale dello Stato omnibus? La democrazia liberale e la democrazia economica corrono seri guai? Il rischio c’è. Ma anche negli anni Ottanta pareva che tutto fosse compromesso, perduto. Persino uno spirito tenace, come il grande filosofo liberale francese Raymond Aron (1905-1983), scrisse un saggio (“In difesa dell’Europa decadente”) in cui dava per imminente la sovietizzazione dell’Europa occidentale. Invece, nel giro di pochi anni cadde il Muro di Berlino travolgendo l’Europa orientale sovietizzata.
Ecco. Servirebbe una classe politica di quel calibro, che non solo accettò la sfida sistemica lanciata dalla società chiusa, riuscendo a prevalere su tutti i piani senza causare una goccia di sangue. Ma introdusse riforme di libertà, nei rispettivi paesi, in grado di accendere una rivoluzione tecnologica, una competizione permanente, i cui benefìci verifichiamo oggi minuto per minuto su ogni prodotto e servizio.

Se la Gran Bretagna venne svegliata dalle politiche thatcheriane, l’Italia si ritrovò migliorata grazie alle riforme liberalizzatrici targate Nino Andreatta (1928-2007), per citare il più determinato tra i nostri. Finale. Servirebbe riscoprire la lezione di quegli anni, anche a costo di affrontare la reazione degli intellettuali più recalcitranti.

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