Se nel sistema calcistico il principio del voto in pagella non conosce crisi, alimentato com’è dal consenso totale da parte dell’opinione pubblica appassionata, invece nel mondo della scuola il voto in pagella da tempo è diventato più blasfemo ed esecrabile di una bestemmia sull’altare. Il commento di Giuseppe De Tomaso
Sarà perché si doveva stabilire la posizione di Leo Messi nella hit parade dei fuoriclasse di tutti i tempi. Sarà perché lo sport (compreso il calcio) resta la più meritocratica tra le attività umane. Ma mai come in occasione dei mondiali qatarioti, da poco archiviati con la vittoria dell’Argentina, una kermesse pallonara ha prodotto un numero così esorbitante di pagelle. Sì, pagelle. Persino gli inviati speciali outsider, ossia i giornalisti non sportivi incaricati di mandare articoli più o meno di costume, complementari o collaterali alla sfida agonistica della giornata, non hanno resistito alla tentazione di assegnare i voti in pagella, e non soltanto per i titolari del campo e i precari della panchina. Segno che nessun metro di giudizio è, nello stesso tempo, più rapido, efficace e preciso del voto da zero a dieci, di gran lunga il criterio più gradito dall’esercito di lettori e telespettatori di sport. Non è un mistero, infatti, che la lettura del voto in pagella, dato a giocatori osannati e/o fischiati (il giorno prima) dalle tifoserie sugli spalti, costituisca la preghiera mattutina del tifoso classico, quello a tempo indeterminato, quello che non si limita a guardare e giudicare una partita, ma vuole confrontarsi quotidianamente, anzi ora per ora sul web, con la tribuna stampa, sulle prestazioni fornite da attaccanti e difensori.
Ma se nel sistema calcistico il principio del voto in pagella (leggi: della meritocrazia estrema) non conosce crisi e obiezioni, alimentato com’è dal consenso totale da parte dell’opinione pubblica appassionata, che è più esigente e severa di un preside dell’Ottocento, invece nel mondo della scuola il voto in pagella da tempo è diventato più blasfemo ed esecrabile di una bestemmia sull’altare. Persino l’istituto, la variante dei “giudizi articolati” da parte dei docenti non gode più di buona salute, e nemmeno di discreta reputazione. Anch’essi, i giudizi scolastici ex cathedra, peraltro spesso in formato omologazione, vengono accusati di fomentare il classismo sociale, la frustrazione giovanile, e di scoraggiare l’autostima individuale dei ragazzi. Risultato? Aumenta il numero di professori ed educatori che, per quieto vivere, sono disposti ad elargire giudizi generosi anche agli allievi più svogliati, in ossequio a un malinteso proposito di inclusione. Tutti uguali devono essere. Uguali aquile e asini? E va bene così, urlerebbe Vasco Rossi. Todos caballeros, allora.
Eppure, a dispetto del senso comune prevalente, la valutazione dei meriti di ciascuno non solo coincide col lievito del buonsenso, ma è alla base delle scelte personali di ogni giorno. Quali sono le domande più ricorrenti in un circolo di amici o in un gruppo di colleghi? Sempre le stesse: conosci un bravo medico? Sai indicarmi un elettricista capace? Quell’ingegnere sa davvero il fatto suo? Domande di questo tipo toccano tutte le professioni e tutti i mestieri, segno che ogni componente della società vuole il meglio dall’altro, sia egli un insegnante o un idraulico, un avvocato o un meccanico. Si pretende il massimo dall’altro, anche perché l’alternativa (accontentarsi del minimo) potrebbe causare seri guai: alla salute e alla sicurezza, alla solidità di un edificio o alla stabilità di un’automobile.
E però i medesimi puntigliosi cittadini che esigono il meglio, e il merito, da tutti gli altri, si trasformano in esemplari opposti, assai tolleranti e indulgenti, egualitari a oltranza, quando è in ballo l’istruzione, a iniziare dall’istruzione dei loro figli. In questo caso, la meritocrazia non è più un valore o un vantaggio. Per molti genitori i compiti a casa per i loro figli sono una pesante scocciatura, lo studio è sempre esagerato, per non parlare delle pretese nei confronti degli insegnanti che, per definizione, hanno sempre torto, sia quando rimproverano il loro figlio, sia quando non lo descrivono, o non lo reputano come un nuovo Leonardo da Vinci.
E pensare che se c’è un luogo dove la meritocrazia deve prevalere su ogni altra idea di formazione-selezione, questa è la scuola, che prepara i futuri protagonisti della società, tecnici e artigiani, coltivatori e medici, avvocati e docenti, dai quali, ovviamente pretendiamo il top del rendimento e della qualità professionale. Ma come si può raggiungere il traguardo dell’ottimo prestazionale se in precedenza si è fatto il possibile e l’impossibile per svilire e depotenziare la carica meritocratica che dovrebbe contenere la scuola, ossia il vivaio del futuro?
Purtroppo, di questo passo, gli unici esempi di meritocrazia verranno offerti dallo sport, sia dalle discipline individuali sia da quelle plurali. Il che non è una bella consolazione. Se il premio al migliore è da sempre la regola di ogni gara sportiva, se l’ambizione a farsi curare dal miglior medico è il desiderio di ogni paziente, per quale ragione la meritocrazia scolastica (fondamentale per l’eccellenza dei futuri professionisti) viene considerata peggio di una strega da mandare al rogo? Fa bene il ministro dell’Istruzione e del Merito a battere il tasto su quest’ultimo tema, che non è né di destra né di sinistra, ma attiene semplicemente alla condizione umana. Anzi, all’aspirazione umana.