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La deificazione di Maradona non teme il nuovo Messi(a)

Pur essendo più immarcabile e più produttivo di Maradona, il dominatore di Qatar 2022 non salirà mai sulla cima dell’Olimpo degli dei. Non sarà mai un Giove onnipotente, cui gli si perdoneranno capricci e stravaganze, peccati e prepotenze, atteggiamenti indifendibili e stili inconcepibili. Resterà, nel migliore dei casi, un dio minore

Forse è giunta l’ora di mettere un freno alla santificazione infinita di Diego Armando Maradona, che dopo la deificazione della natura, costituisce il fenomeno di fede oggi più diffuso nel pianeta. Tanto da aver sfrattato, due anni fa, a cadavere ancora caldo, nientemeno che San Paolo nella denominazione dell’arena partenopea. Povero Messi. Aveva vinto e stravinto, sul campo, molto di più del sacro D.A.M. Aveva segnato centinaia e centinaia di gol in più rispetto al Mito, eppure tutti a ripetere che gli era inferiore assai, che fino a quando non conquistava la Coppa del Mondo non poteva neanche avvicinarsi al trono di Re Diego. Ora che la Pulce ha giganteggiato nel mondiale dell’emiro, ora che ha tagliato l’unico traguardo che ancora gli sfuggiva, forse si  ridurrà la pretesa, nei confronti di Messi, di ulteriori, supplementari primati da inseguire. Ma, vedrete, ci sarà sempre chi dirà che Diego è Diego e che Messi resta solo una pallida controfigura del suo leggendario predecessore. Già, adesso, nonostante il recentissimo trionfo di domenica 18 dicembre nel Qatar, il fuoriclasse di Rosario (Argentina) fa fatica a fare breccia nella sterminata partigianeria maradoniana. Figuriamoci strada facendo.

Ad impossibilia nemo tenetur, avvertivano gli antichi romani. Purtroppo Messi deve rassegnarsi. Diego è una divinità, e lui, Leo, no. Né lo diventerà mai. Troppo normale, troppo serio, rispetto al Pibe de Oro. Non lo diventerà neppure se, prima di congedarsi dalle gare, segnerà dieci gol di seguito al Real Madrid. La fede è più forte di ogni evidenza: può ignorare senza complessi di colpa qualsiasi appello alla ragione e alla razionalità.

Se oggi Maradona tornasse nel fulgore dei suoi 20 anni, difficilmente troverebbe un club disposto a fare follie per ingaggiarlo. Troppo lento, sul tappeto verde, risulterebbe il funambolo argentino rispetto ai suoi colleghi odierni, che, oltre a far volare la palla, corrono a una velocità olimpionica, degna di un centometrista medagliato, quasi alla Jacobs per capirci. Né sarebbe facile, sempre per la Buonanima, sopportare gli allenamenti da lavori forzati, o il tourbillon di partite ufficiali imposto dalle tv a caccia di share, di abbonamenti da parte dei tifosi e di spot pubblicitari da parte dei colossi multinazionali. Scoppierebbe, Diego, nel giro di una settimana. E pensare che Maradona era stato baciato dal Creatore, che gli aveva donato piedi magici e un pallone ossequioso sin nella culla, ma tutto diventerà nella vita, Diego, tranne che un atleta in armonia con una condotta da atleta. Amen.

Genio e sregolatezza, Maradona dissiperà non poco il suo straripante talento naturale. Si accompagnerà a discussi e spregiudicati sodalizi, farà uso di sostanze proibite, si atteggerà, ora ingenuamente ora callidamente, a vindice dei deboli, addirittura accarezzerà il sogno di dare una leadership politica al populismo dell’America Latina. Fino al punto di fare notizia più al di fuori che dentro gli stadi. I suoi numeri in materia di rendimento professionale sono impietosi, in negativo, nel raffronto con il Successore fresco iridato in Qatar. Fatta eccezione per il titolo mondiale, la bacheca dei trofei di Diego non può celare numerosi spazi vuoti se accostata alla vetrina di Leo. Ora Leo ha colmato la lacuna della Coppa Fifa che mancava alla sua formidabile collezione di vittorie. E questo argomento, in teoria, non dovrebbe più essere usato e abusato dal superclub dei maradoniaci.

Ma la fede è fede. Non ammette dubbi né eresie. La verità è che Messi è glorioso con la palla davanti. Ma non è un personaggio altrettanto iconico fuori dal terreno di gioco. Lui ama la sua famiglia. È fedele alla moglie, compagna di vita sin dall’infanzia. Non capeggia rivolte, non frequenta capi di Stato e dittatori, non troverà mai un Fidel Castro pronto ad accoglierlo nei momenti più infelici e drammatici della propria esistenza. A proposito: il Messi è subito stato messo in croce per aver indossato la veste regale qatariota durante la premiazione, Maradona ha servito (ricompensato) autocrati e tiranni vari, ma tutti sempre ad applaudirlo. Insomma, pur essendo più immarcabile e più produttivo di Maradona, il dominatore di Qatar 2022 non salirà mai sulla cima dell’Olimpo degli dei. Non sarà mai un Giove onnipotente, cui gli si perdoneranno capricci e stravaganze, peccati e prepotenze, atteggiamenti indifendibili e stili inconcepibili. Resterà, nel migliore dei casi, un dio minore.

Il dio Maradona, invece, è un dogma, un messaggio di fede. Non si discute. Forse non è solo Messi ad essergli superiore in area di rigore. Pelè, Di Stefano, Cruijff, lo stesso Cristiano Ronaldo possono vantare curricula e numeri migliori, da capogiro, specie sotto rete. Ma nessuna statistica potrà scalfire l’irresistibile devozione nei riguardi di Dieguito, nemmeno la constatazione che egli non ha mai vinto una classifica cannonieri, da attaccante del Napoli. Ok: sotto il Vesuvio ha portato due scudetti, ma per la sua causa stantuffavano De Napoli e Bagni, Ferrara e Giordano, Bruscolotti e Carnevale, non propriamente carneadi in cerca d’autore.

E comunque. I santificatori di Diego dovrebbero cominciare a placare gli ardori per il loro beniamino. Fino a ieri i più tiepidi della platea si limitavano a rimproverare, tutt’al più, a Maradona un deficit di virtù morali, il che non contribuiva a issarlo a esempio di vita, non di calcio, per i giovanissimi. Per il resto, però, il Mito restava intatto, indistruttibile. Oggi, però, i santificatori non dovrebbero sottrarsi a una sana opera di revisionismo storico calcistico, di fronte alla luminosa stella Messi. Macché. Scommettiamo, non andrà così. Il meglio che potrà capitare alla Pulce sarà l’investitura a viceré o a semidio della storia pallonara. Il posto più alto è e sarà sempre occupato dal Pibe. Sì, perché, contro il fanatismo fideistico, ogni partita è persa, anche se in campo scende il vero Messi-a.

Ps. È vero. Per anni il Messi (straordinario) del Barcellona ha oscurato il Messi (ordinario) della nazionale argentina. Il che ha scatenato fiumi di inchiostro, veleni e dietrologie. Fatica sprecata, forse. La società del Barcellona aveva investito un patrimonio sulle gambe e sulla testa della Pulce. Probabile che avesse chiesto al ragazzo di risparmiarsi in nazionale, dato, in caso di infortunio, tutte le conseguenze del caso, soprattutto economiche, sarebbero ricadute sulla società catalana. Accade per calciatori meno decisivi che il loro club di appartenenza storca il naso o faccia resistenza per le convocazioni in nazionale. Immaginiamo per Messi. A 35 anni Leo si sarà sentito svincolato da tutti gli obblighi morali e ha fatto il Messi, anche perché, nel frattempo, aveva cambiato maglia e città: da Barcellona a Parigi. E il suo nuovo padrone era il padrone del Qatar, smanioso di premiare nella sua Doha il più bravo di tutti i tempi.

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