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Nella Pa servono cambio di paradigma e trasformazione digitale. I dati europei

Di Michele Zizza

Fa bene il ministro della Difesa quando dichiara che nella Pubblica amministrazione dovrebbero essere mandati via i burocrati del “no”, ma da aggiungere anche riluttanti all’adozione dei nuovi linguaggi e non pronti a sposare i nuovi processi della società iperconnessa, con le conseguenti ricadute sul sistema e quindi sul cittadino/utente. L’intervento di Michele Zizza, docente di Culture Digitali all’Università della Tuscia

È vero, lo stato di salute della Pa in Italia, considerando il quadro comunitario, non è performante in termini di attuazione dei programmi e di trasformazione dei processi. Credo che questo volesse intendere il ministro Crosetto con le sue dichiarazioni che, peraltro, non rivelano nulla di nuovo, purtroppo.

L’Italia, secondo i rating internazionali, nelle voci relative al servizio al cittadino, non si colloca bene. Basta guardare il Digital Public Administration Factsheet 2022 elaborato dalla Commissione europea che fotografa la condizione di tutti i Paesi Eu. L’Italia cresce molto lentamente.

L’Eurostat Information Society Indicators, nel quadro complessivo, comparando la velocità media di crescita della Ue con l’Italia, evidenzia un distacco di circa 15-20 punti percentuali in una finestra di monitoraggio 2011-2021. Nel 2017 la Commissione europea ha pubblicato lo European Interoperability Framework (Fei) per fornire orientamenti specifici su come istituire servizi pubblici digitali interoperabili attraverso una serie di 47 raccomandazioni.

Il meccanismo di monitoraggio del Fei, per valutare il livello di attuazione negli Stati membri, si basa su un set di 71 chiavi quali indicatori di performance (Kpi) raggruppati all’interno dei tre pilastri: principi di interoperabilità – livelli di interoperabilità – componenti del modello concettuale.

Nonostante in Italia nel giugno 2019 veniva pubblicato il quarto piano d’azione (2019-2021) che puntava a trasformare il rapporto tra cittadini e il settore pubblico ciò non si realizzava e i target non venivano raggiunti. Il piano prevedeva di apportare un delta positivo in dieci aree tematiche: Dati aperti; Trasparenza; Registro dei titolari effettivi; Sostegno alla partecipazione; Regolamentare l’accesso delle parti interessate ai decisori della Pubblica Amministrazione; Cultura del governo aperto; Prevenzione della corruzione; Semplificazione; Servizi digitali; Cittadinanza digitale e competenze.

Ora, considerando la scientificità del rapporto elaborato, è facile notare che l’impianto di realtà che costituiscono la Pubblica amministrazione non è in linea con gli standard europei e, pertanto, siamo indietro come sostiene il ministro della Difesa. “Non si può pensare di fare politiche nuove e diverse se nei posti chiave tieni funzionari che hanno mentalità vecchie” e aggiungo, riluttanti all’adozione dei nuovi linguaggi e non pronti a sposare i nuovi processi della società iperconnessa, con le conseguenti ricadute sul sistema Pa e, quindi, sul cittadino/utente.

Anche nella Difesa avviene ciò e proprio la Difesa, come spesso accaduto in passato, può rappresentare, oggigiorno, il kick off di una transizione digitale per l’intera infrastruttura pubblica. Partendo, ad esempio, dall’importanza della multidisciplinarietà negli organigrammi, da una nuova docimologia e dal coinvolgimento delle università grazie anche al ruolo strategico del Casd. Esattamente come accade nei Paesi membri del Patto Atlantico e, soprattutto, in quelli scandinavi dove, difatti, il Digital Public Administration Factsheet riporta risultati straordinari anche in virtù di una lunga e fattiva collaborazione tra università e difesa. Basta pensare, inoltre, ai centri di eccellenza della Nato in cui le università rappresentano l’elemento catalizzatore nella realizzazione dei cambiamenti e nella divulgazione all’uso dei nuovi strumenti.

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