Finora l’andamento del Piano Nazionale di Adattamento ai cambiamenti climatici è stato lento e accidentato, e soprattutto è rimasto fuori dai radar della politica e dell’interesse pubblico, nonostante l’urgenza massima di definire uno strumento operativo di programmazione e pianificazione di interventi e opere a tutela della vita e del futuro di milioni di italiani, di una bella fetta di territorio naturale, delle risorse idriche e di un bel pezzo di Pil nazionale
Doveva essere la priorità nella Penisola dei grandi rischi naturali e hot spot di eventi estremi meteoclimatici nell’area del Mediterraneo, doveva diventare la madre di tutte le nostre difese e delle battaglie ambientali e sociali ed economiche nel Paese che più di altri ha già pagato caro il tragico errore del non fare nulla, doveva garantire la pianificazione della mitigazione climatica con precise regole e tutta l’innovazione disponibile.
Invece, il “Piano dei Piani“ nazionali a 10 anni dall’avvio della sua definizione è ancora una corposa versione da aggiornare e priva della necessaria cornice di dotazioni finanziarie, delle necessarie inter-connessioni con il Pnrr e altri piani nazionali e regionali, e di una regia e una governance nazionale e locali per “metterlo a terra”.
È questo il tristissimo destino del Pnac, ovvero del Piano Nazionale di Adattamento ai cambiamenti climatici, appena fatto pubblicare dal ministro Gilberto Pichetto Fratin sul sito del ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, con annessa Snac, acronimo di Strategia Nazionale di Adattamento Climatico, da cui non può prescindere e a cui bisogna arrivare per utilizzarlo.
Non è l’Habemus Piano poiché il Piano e la sua Strategia stanno facendo il loro ingresso nel 2023 nella loro versione 2018, in parte aggiornata e in parte con dati, come sulle risorse idriche, fermi a 12 anni fa. Basta leggere il sottotitolo del documento per capire l’andazzo del vivacchiare italiano sul tema, con il plateale “Giugno 2018. In via di approvazione”, e per farsi un’idea di come il Paese più bello e più fragile del mondo affronta la drammaticità dei suoi problemi strutturali e l’assenza di difese dagli impatti sempre più devastanti del riscaldamento globale sui 27 indicatori di rischio indicati, e tra questi acque, aree urbane, ecosistemi e biodiversità, dissesto geologico-idrologico-idraulico, desertificazione, degrado del territorio, siccità, foreste, agricoltura e produzione alimentare, pesca, turismo, trasporti, industrie, infrastrutture, patrimonio culturale, energia, salute.
Il Piano è stato quindi inviato per nuove consultazioni ai ministeri, e in procedura di Vas, Valutazione Ambientale Strategica, per essere approvato con i suoi documenti metodologici rivolti a “decisori pubblici nazionali, regionali e locali”, con la “definizione di strategie e piani regionali di adattamento ai cambiamenti climatici”, i “principi dell’analisi economica integrata per la valutazione dei costi del cambiamento climatico”, i “criteri di integrazione dell’adattamento negli strumenti di pianificazione e programmazione esistenti” utilizzati sulla base dei programmi europei come il Life e l’International Council for Local Environmental Initiatives per “un possibile quadro delle governance e dei modelli di intervento”, gli “strumenti di finanziamento della programmazione comunitaria e regionale”, la “quantificazione e valutazione dei costi dell’inazione o del mancato adattamento”.
Il nuovo testo dovrà poi essere sottoposto a consultazione pubblica, come prevede la Vas. Sullo sfondo resta sempre la creazione di “una struttura di coordinamento, una struttura di supporto tecnico-scientifico, un organo consultivo” e di “una struttura di governance dell’adattamento” e del futuro “Osservatorio Nazionale” che dovrà rendere chiari e soprattutto operativi i contenuti dei 5 capitoli: quadro giuridico, situazione climatica, impatti del riscaldamento globale sul territorio, misure e azioni per l’adattamento.
Ma siamo solo a riavvio di un percorso che somiglia tanto al Groundhog Day, il giorno della marmotta e del ricomincio da capo. Finora, infatti, l’andamento è stato lento e accidentato, e soprattutto è rimasto fuori dai radar della politica e dell’interesse pubblico, nonostante l’urgenza massima di definire uno strumento operativo di programmazione e pianificazione di interventi e opere a tutela della vita e del futuro di milioni di italiani, di una bella fetta di territorio naturale, delle risorse idriche, e di un bel pezzo di Pil nazionale.
Le analisi del Piano sono peraltro ben fatte, partono dai dati raccolti dall’Ispra e da altri enti scientifici come Ingv e Cnr, Autorità di bacino e università, con un set di informazioni ancora in parte ferme al 2010, e dalle proiezioni climatiche su stime del Centro Euromediterraneo sui cambiamenti climatici interfaccia italiano dell’Ipcc dell’Onu, il gruppo intergovernativo di scienziati impegnato sui cambiamenti climatici.
Gli scenari climatici nazionali disegnati sono spaventosi, variano dall’aumento al 2100 di un solo grado centigrado di temperatura media rispetto ai livelli pre-industriali ma solo in presenza di “azioni drastiche” di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra che oggi non vediamo all’orizzonte, fino allo scenario peggiore con la temperatura media che schizza al drammatico più 5 gradi con inevitabili impatti in particolare su salute, risorse idriche, aree urbane, turismo, trasporti, agricoltura.
Gli esperti considerano necessari e improrogabili i programmi concreti di azione abbozzati, dall’informazione alla popolazione alla “messa a terra” di migliaia di cantieri, dai necessari adeguamenti normativi all’individuazione di soluzioni e sistemi infrastrutturali di protezione.
Ma la vera domanda oggi è: riuscirà il governo Meloni a trasformare l’ultima versione da “documento di base” in una vera e concreta strategia nazionale pianificata da Palazzo Chigi con l’indicazione dei fondi e della loro destinazione, con governance nazionale e locali, indicazioni delle fasi di attuazione e dei sistemi di controllo, con l’interconnessione con altri piani nazionali e regionali e soprattutto con il Pnrr, in una visione integrata? Riusciremo, insomma, ad evitare l’ennesima falsa partenza e a non replicare una vicenda imbarazzante per il Paese più esposto ma anche il primo in Europa a iniziare a pianificare della massima sicurezza possibile?
Già, perché era il 2012 quando l’allora ministro dell’Ambiente Corrado Clini decise l’avvio dell’iter del Pnac ponendo l’Italia all’avanguardia degli studi scientifici sugli impatti climatici. La durata media dei governi non ha certo aiutato, ma i successivi ministri Andrea Orlando e Gian Luca Galletti confermarono il Piano Clini e fecero procedere i lavori sui corposi dossier firmati da 120 scienziati e ricercatori italiani, il top delle nostre scienze applicate. Era il luglio del 2014 quando l’enorme lavoro, anche interministeriale, venne affidato dal ministro Galletti a Sergio Castellari, fisico e climatologo dell’Ingv e oggi esperto di clima e ambiente presso la Rappresentanza Permanente dell’Italia alle Nazioni Unite, con il coordinamento della road map iniziata due anni prima e la definizione della “Strategia nazionale di adattamento” con la previsione dell’approvazione del Piano entro e non oltre il 2018, dopo la fase di consultazione pubblica.
L’accordo sul clima siglato a Parigi il 12 dicembre 2015 fu preso sul serio dall’Italia, tanto più che l’Unione europea lo rese vincolante per tutti spingendo i Paesi membri all’azione per raggiungere gli obiettivi al 2030 di riduzione delle emissioni di CO2. Il team di esperti italiani coordinato da Castellari ridisegnò il perimetro degli indicatori e delle azioni con gli obiettivi del contenimento della vulnerabilità dei sistemi naturali, sociali ed economici, dell’incremento della capacità di adattamento sui territori, dell’utilizzo di tecnologie, di opportunità anche economiche e di nuova occupazione, e del coordinamento delle azioni a diversi livelli. E fu costruita la strategia italiana di difesa dagli impatti climatici con dossier tecnico-scientifici e tecnico-giuridici in tre fasi di pianificazione: a corto, a medio e a lungo termine, per l’adattamento al 2020, al 2030 e al 2050 con altrettanti pacchetti di interventi in una Italia divisa in macro-aree climatiche. Dal 2016 continuò il lavoro per trasformare il documento strategico in un grande piano operativo, coinvolgendo esperti di ogni settore, e nell’ottobre 2017 il Piano fu sottoposto a consultazione pubblica con osservazioni recepite da soggetti, enti e associazioni ambientaliste, pronto per essere adottato nel 2018 anche come un Piano open, in grado di adattarsi nel tempo.
L’Italia aveva un quadro chiaro e aggiornato delle problematiche di impatto con la fondata certezza di investire da subito molte meno risorse di quanto avrebbe dovuto sborsare in futuro per la sola riparazione dei danni meteo-climatici, un quadro di norme da innovare e integrare e di azioni e investimenti nell’adattamento, nella mitigazione, nella prevenzione e nella creazione di opportunità con nuove filiere produttive, nuove economie e nuovi lavori in diversi settori dalla mobilità all’edilizia, dall’industria all’agricoltura alla produzione energetica.
Cosa è successo, invece? È successo che fra turn over di governi e nel disinteresse generale, il Piano è rimasto a prendere polvere nei cassetti dei due governi Conte e anche del Governo Draghi. Dal 2018, e con il depotenziamento tecnico-scientifico progressivo del ministero dell’Ambiente non ha mai ricevuto il via libera definitivo. Il Governo giallo-verde di Giuseppe Conte con ministro dell’Ambiente Sergio Costa fece ripartire l’iter di consultazione con il nuovo giro dei ministeri senza concluderlo. Azzerò poi tutto il secondo Governo Conte con sempre il ministro Costa che riavviò daccapo l’iter e tutto tornò poi alla casella iniziale con il Governo Draghi e il nuovo ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani. Si persero così le sue tracce, come pure quelle degli urgenti passaggi successivi necessari per renderlo operativo e cioè il Piano d’azione, il Piano della Governance e il Piano Finanziario. Oggi ricomincia il giro dei ministeri.
Ma in un Paese in perenne emergenza come il nostro, colpito da piogge “esplosive”, cicloni e tifoni mediterranei, da inondazioni e da lunghe siccità estreme, con dissesti e desertificazioni in corso, che conta oltre 628.000 frane censite (due su tre in Europa) delle quali un terzo a “cinematismo rapido” con crolli e colate rapide di fango e detrito a velocità anche di alcuni metri al secondo e ad elevata distruttività come a Ischia, con continue perdite di vite umane e drammi sociali ed economici, è ancora il caso di affidarsi solo e sempre alla buona sorte? Serve altro, per avere un’idea dei cambiamenti climatici? Non sarebbe l’ora di una svolta?