Skip to main content

Guardare alla Polonia per leggere il futuro d’Europa. Gli scenari di Morawski

Di Giulia Gigante

Attenzione a non sottovalutare i polacchi e la loro questione nazionale, perché nell’Europa contesa (da Ovest ed Est) il fianco orientale può rivelarsi un catalizzatore risolutivo o un moltiplicatore di instabilità all’interno della crisi globale. Colloquio a tutto campo con Paolo Morawski, presidente della Fondazione Janina Zofia Umiastowska, saggista, esperto di storia e cultura europea e polacca

 

 

Iniziamo col porci delle domande: cosa rende attuale il nazionalismo e le rivendicazioni insite nei Paesi che si allontanano dalle direttive europee? Perché, al di là delle incomprensioni e dei musi duri, Varsavia non può fare a meno di Berlino (e della sua corrente monetarista) e degli insopportabili “burocrati di Bruxelles”? Quale posto spera di occupare nel futuro riassetto europeo e nel nuovo ordine mondiale? Ne parliamo con Paolo Morawcki, curatore del Blog “Poli-logo. Dialoghi plurali a Est”, studioso di storia polacca ed europea.

Il 16 dicembre 1922, Gabriel Narutowicz, da poco eletto primo Presidente della Repubblica di Polonia rinata dopo oltre 120 anni di assenza dalla geografia politica d’Europa, è assassinato da un fanatico di destra, forse psicopatico, con un colpo di rivoltella durante l’inaugurazione di una mostra d’arte.

Sarei sensibile ai moniti, ma estremamente prudente con i paralleli. Nessun evento è mai paragonabile a un altro, impossibile fare un confronto diretto tra l’assassinio del Presidente Gabriel Narutowicz nel 1922 e quello, per esempio, del sindaco di Danzica Paweł Adamowicz avvenuto nel gennaio 2019. Entrambi i tragici eventi, tuttavia, hanno sullo sfondo rilevanti tensioni politiche e, in definitiva, s’innervano nelle spaccature politiche del Paese. L’assassino del Presidente Narutowicz era convinto nella sua testa di essere un “patriota” che cercava di “salvare” la Polonia dalle sinistre, dalle minoranze nazionali (tra cui ucraine), dai polacchi di origine ebraica (nel clima di antisemitismo dell’epoca la destra gridava che non voleva che “gli ebrei governassero la Polonia”).

Oggi in Polonia c’è un clima sociale paragonabile a quello aspro e violento di allora?

No, siamo all’interno dell’assetto pacifico e democratico dell’Ue. Tuttavia, come ma forse più che in altri paesi europei (Ungheria esclusa), assistiamo a un estenuante braccio di ferro con Bruxelles accusata di voler “interferire” negli affari interni della Polonia, quasi che il funzionamento di uno Stato membro fosse una “area riservata” extra-giuridica e non aderisse allo stesso sistema di regole comuni (rule of law) e di valori condivisi. D’altro canto anche sul piano interno continui sono i tentativi di annacquare o aggirare le regole del gioco democratico (vedi la questione dell’indipendenza della magistratura o dei media), di negare e ridurre la sfera dei diritti (si pensi alle donne, agli omosessuali). Una crescente polarizzazione politico-sociale-culturale divide e lacera la società polacca. Cento anni fa lo Stato polacco andava ricostruito sulle rovine di vari imperi (russo, austro-ungarico, tedesco), in un contesto psicologico di tragica guerra e di acceso nazionalismo. Forte era allora la domanda su chi facesse o non facesse parte della nazione polacca nel momento della sua rinascita. L’interrogativo intersecava l’esistenza delle minoranze (allora un terzo della popolazione) alla questione dei confini della Polonia. A est, dopo il 1918, i confini vennero stabiliti da conflitti sanguinosi.

Da chi era composta la Polonia rinata?

Inglobava territori a cui aspiravano, oltre ai bolscevichi, anche ucraini, bielorussi e lituani che volevano a loro volta costituirsi in Stati-nazione. A ovest, in modo più blando, anche se non senza vittime, c’erano controversie con la Germania e la Repubblica Ceca. Oggi nessuno mette più in discussione i confini attuali della Polonia, quelli usciti dalla Seconda guerra mondiale e ribaditi dopo il 1989. Invece, e purtroppo, la domanda mal posta su chi faccia o meno parte della nazione polacca continua a interpellare molti polacchi, specie coloro per i quali non tutti i cittadini polacchi sarebbero dei “veri” polacchi. C’è una certa Polonia, minoritaria ma fin troppo visibile e chiassosa, che è ancora ancorata da una parte al Ventennio tra le due guerre mondiali e dall’altra alla Polonia del “socialismo reale”, quando tutti i ragionamenti ruotavano intorno allo schematismo radicale my (noi) e oni (loro). Per certi versi, e non è un paradosso, parti delle mentalità di epoca comunista sovietica impregnano ancora l’odierna società polacca.

Sta dicendo che le linee di demarcazione odierne ricordano in qualche modo sia quelle tra le due guerre sia quelle del periodo della Polonia Popolare?

Le ricordano, c’è persistenza ma tutto avviene in un contesto completamente diverso. Salvo eccezioni, il conflitto odierno viene presentato, a destra, come un contrasto tra autodefiniti “patrioti” e “anti-polacchi”. I primi accusano i loro avversari di svalutare e snaturare la storia polacca, di essere succubi se non “agenti” del dominio tedesco, di piegarsi proni al volere di Bruxelles, di svendersi all’Unione Europea, di voler pervertire i valori tradizionali polacchi con quelli del movimento Lgbt o degli immigrati. Più in generale, i patrioti o sovranisti polacchi tacciano i propri oppositori di globalismo, nel senso che i secondi difendono e promuovono valori e soluzioni che avrebbero il torto, per i primi, di indebolire lo Stato nazionale favorendo e consolidando i centri di potere sovranazionali, perlopiù tecnocratici e non eletti dal popolo.

Nasce da qui la retorica del governo polacco di una “mostruosa” Bruxelles.

Le istituzioni europee, secondo questa narrazione, vorrebbero dettare (senza averne alcun diritto) ai polacchi come vivere e comportarsi. È un fenomeno non dissimile alla retorica di altre destre europee (in Italia Fratelli d’Italia, la Lega). L’opposizione polacca di contro si dichiara pro-europeista: non crede che il futuro della Polonia passi per più sovranismo, bensì, al contrario, per un maggiore impegno polacco dentro le strutture unitarie; quindi, si propone di rafforzare la comunità di valori dell’Ue. Il governo attuale, per Dna, vuole dunque mantenere “intoccabili” sfere di sovranità importanti e considera l’integrazione europea un fenomeno soprattutto intergovernativo, e tutto sommato à la carte. Talvolta più come un bancomat a cui attingere senza altri oneri.

Che ci dice sullo stato di diritto?

Il conflitto fra Varsavia e Bruxelles (che parla a nome di quasi tutti gli altri paesi dell’Ue) è l’esempio più lampante di questa discrepanza di fondo. Il rifiuto di “più Bruxelles” – che negli slogan più radicali diventa rifiuto di “più Germania” – si manifesta anche su altri fronti. Per esempio nella decisione di stare fuori dell’euro, ma anche nella iper-centralità attribuita al rapporto con la Nato e nella ricerca chimerica da parte di Varsavia di un legame forte, eccezionale, privilegiato con gli Stati Uniti. E come se, per dirla in una battuta, in 500 anni fossimo passati da una narrazione sulla Polonia antemurale della cristianità a un immaginarsi la Polonia sponda stabile e avanzata dell’Occidente in Europa.

Eppure, sembra che la guerra abbia fatto venir meno queste barriere…

Da febbraio 2022 la guerra della Russia in Ucraina ha inizialmente creato uno spirito di provvisoria coesione nazionale a favore e in difesa delle vittime ucraine aggredite dai russi. Non era scontato: ancora oggi in Polonia c’è chi punta il dito accusatorio contro i crimini commessi dagli ucraini contro i polacchi in Volhynia nel 1943. Eppure, la maggioranza della popolazione con un moto di generosità senza precedenti si è schierata dalla parte dell’Ucraina e dei suoi profughi (oltre 2 milioni ne sono stati accolti in Polonia). Ora il peso della contrapposizione grava, a ragione, tutto sui crimini della Russia in Ucraina, che vanno a sommarsi e sovrapporsi nell’immaginario polacco ai crimini comunisti dell’Urss (per esempio l’assassinio staliniano degli ufficiali polacchi a Katyn).

L’opinione pubblica è soddisfatta da questo approccio?

L’unità della popolazione polacca mi pare stia scricchiolando. Da una parte è accaduto di recente che i finanziamenti congiunti dell’Ue per l’Ucraina devastata dalla guerra siano stati per un breve periodo “condizionati” per non dire “sospesi” a causa di lotte politiche e divisioni interne alla Polonia e in relazione alle tensioni tra governo polacco e istituzioni europee (come accade anche in maniera più dura con l’Ungheria). Più clamorosamente, la parte più nazionalista del Paese e della classe dominante ha rivitalizzato, forse anche in funzione delle prossime elezioni politiche 2023, forti umori anti-tedeschi e lanciato irragionevoli attacchi alla Germania.

L’Unione Europea ha approvato il nono pacchetto di sanzioni contro la Russia e quello finanziario per Kiev. Inizialmente, la misura era stata bloccata dalla Polonia poiché conteneva troppe deroghe, ma grazie al lavoro del Coreper, a margine del vertice Ue, la situazione si è sbloccata. Cosa comporta tutto questo per Varsavia? Soprattutto, come interpreta il fatto che l’Ungheria è riuscita a salvarsi dalle sanzioni dei ministri russi? Orbàn non è più un alleato affidabile? Il patto di ferro tra Varsavia e Budapest viene meno?

Il celebrato asse di destra Viktor Orbán-Jarosław Kaczyński risale perlomeno al 2015. La loro colleganza antiliberale  è parsa culminare a cavallo del 2021-2022, ma poi dal 24 febbraio 2022 con l’aggressione russa contro l’Ucraina l’intesa Budapest-Varsavia si è rivelata debole, anzi ha fatto un passo indietro. Budapest ha in sostanza optato per se stessa e per Putin, Varsavia invece si è schierata subito con Kiev affiancando il democratico Joe Biden, nonostante il lungo e ostinato appoggio a Donald Trump. Nella Nato, la Polonia è diventata un fondamentale pilastro dell’appoggio europeo e occidentale all’Ucraina, con i paesi baltici e la Romania, mentre l’Ungheria si è fatta la fama di “cavallo di Troia” russo in Europa. Come risultato della guerra, dunque, le due capitali si trovano ai lati opposti del conflitto.

Come vede questo rapporto nel lungo periodo?

Credo che resterà un fronte unito delle destre polacca e ungherese nei confronti di Bruxelles (la “colonizzatrice”). Non cambia la loro profonda avversione verso le istituzioni europee e i suoi “eurocrati”, verso i modelli liberali, i valori della società aperta. Né Budapest né Varsavia accettano l’insistenza dell’Ue sullo stato di diritto né vogliono un rafforzamento in senso stringente dell’Unione. Ambedue i paesi sono pronti a costruire nuovi muri contro gli immigrati. Nel medio-lungo termine, con gli attuali assetti di potere, la contrapposizione tra la Polonia e l’Ue sembra destinata a durare, se non a crescere, nonostante il fatto che l’unica potenza a guadagnare da questa faida è la Russia di Putin. Con, però, due novità importanti: la prima è che l’Ue ha infine reagito. Ha messo per esempio in moto il meccanismo “del denaro in cambio dello stato di diritto”. La seconda novità è il governo di Giorgia Meloni: Roma sceglierà di appoggiare Budapest e Varsavia contro l’Ue o di co-gestire con Parigi e Berlino il futuro dell’Unione?

Diciamo che sul piano europeo lo scontro tra l’Est e l’Ovest si lega alla dualità Nord-Sud. Vi è, peraltro, un inedito rimescolamento delle carte in tutta Europa…

Sono d’accordo, dobbiamo assolutamente pensare su scala europea e renderci al più presto conto che sta arrivando un mondo completamente diverso da quello precedente. Ci sono processi che – sotto la spinta prima della crisi economica, poi della pandemia, ora soprattutto della guerra che viene combattuta su tutti i fronti, a 360 gradi – si svolgono sotto i nostri occhi e di cui probabilmente non siamo ancora pienamente consapevoli, né sono adeguatamente analizzati perché manca la distanza temporale necessaria. La sensazione è che abbiamo a che fare con una inedita serie di polarizzazioni che non corrono più lungo la vecchia dicotomia tradizionale sinistra-destra, ma si cristallizzano intorno ad alcuni dilemmi essenziali: viene prima la democrazia o prima la nazione? Prima l’economia o prima la sicurezza (in senso lato)?

Come si schiera la società polacca?

Mi pare attraversata da linee di differenziazione completamente diverse, come capitale vs. provincia, città vs. campagne, più istruzione e conoscenza vs. meno istruzione e conoscenza, ricchi vs. poveri eccetera. Contemporaneamente si fanno strada nuove polarizzazioni divisive come federalisti vs nazionalisti, liberali in economia vs. statalisti, democratici pronti ad accettare i rifugiati vs. xenofobi che combattono contro ogni manifestazione di ciò che considerano “straniero”. Quello tracciato è uno schizzo in prima approssimazione, ma, se non vado errato, è ciò che accade in Polonia, in tutta l’area dell’Europa centrorientale. E accade pure nella Vecchia Europa occidentale.

Perché la “questione nazionale” continua ad essere così accentuata e radicata soprattutto nell’est Europa?

Non in senso classico, a dispetto delle apparenze. Si, in Polonia si preferisce parlare di nazione, concetto più ampio, perché la nazione è il luogo in cui vivono idealmente i polacchi, dovunque essi siano, e non è un’area delimitata, dai confini tracciati (peraltro, storicamente, da potenze straniere). Ma se si analizza alla luce di quanto ipotizzato in precedenza il tema della sicurezza, che le nostre società invecchiate sentono in maniera acuta, se si insiste sui cambiamenti in atto, quelli più evidenti, la questione della sicurezza esplode attraversando la questione nazionale a molti livelli. Da noi, in Italia, può caricarsi a torto o a ragione di paura del migrante che arriva dal mare, del terrorista (“islamico”), del rifugiato, e pure di paura per la mancanza di posti di lavoro, di carburante, di fonti energetiche, e così via. Oltre all’ordine pubblico, il concetto chiama in evidenza la sicurezza energetica, la sicurezza climatica, la sicurezza delle materie prime e, sempre più spesso, la sicurezza tecnologica o informatica.

E in Polonia cosa succede?

Troviamo più o meno le stesse preoccupazioni, a intensità e dosaggi diversi. Ma troviamo in particolare la concreta paura della guerra che si svolge alle frontiere polacche. È facendo tra l’altro leva sulla paura di una guerra vicina che Orbán ha vinto le ultime elezioni ungheresi. Non è escluso che lo stesso possa accadere in futuro nei paesi baltici, in Polonia, in Romania, in Bulgaria, cioè in tutta la fascia di paesi direttamente interessati alla nuova “cortina di guerra” che sta provocando l’invasione russa dell’Ucraina. Il ritorno della guerra in Europa spinge gli Stati europei verso due estremi: o al riarmo (effettivo e mentale) oppure verso un pacifismo nobile ma inconcludente. La nostra salvezza sta nel rafforzamento della coesione europea. Il che presuppone visione, fermezza e azione coerenti e condivise. Invece, questa guerra pare affrettare inesorabilmente una ri-nazionalizzazione di tutte le narrazioni. Ovunque si assiste al passaggio da un simpatico e civile patriottismo a un’esasperazione nazionalistica, pericolosa perché tesa a dividere, chiudere, escludere, contrapporre. Ciascuno “riscopre” il proprio particolare, afferma di venire “prima” degli altri, vuole “salvarsi” da solo, per proprio conto. Si ha paura di affondare tutti insieme, quindi si proclama l’abbandono della nave nell’illusione di scamparla con la propria scialuppa di salvataggio.

Con modalità diverse, al terribile nazionalismo colonizzatore russo corrisponde il duro nazionalismo difensivo ucraino, ma tutti i paesi europei si stanno di fatto ri-nazionalizzando – e non da oggi, da anni, se non da decenni – in Polonia e in Ungheria quanto in Italia e in Francia. Ovunque si vorrebbe perdere il piacere alla pluralità sociale e culturale. Ovunque si esalta il monocorde e il monocromatico. Malauguratamente, la guerra ci fa avanzare nella direzione sbagliata: quella che mettendo gli europei gli uni contro gli altri potrebbe affossare l’unificazione europea. Naturalmente non è affatto detto che lo spintone al suicidio, che tanti attori esterni cinicamente caldeggiano e appoggiano, prevalga.

Ma cos’è l’Europa (e l’Unione Europea) per i polacchi di oggi? Voglio dire, il sentimento euroscettico è ben innervato nel senso comune, ma contemporaneamente lo è anche la consapevolezza di non poter fare a meno di Bruxelles. Cosa significa per Varsavia “stare in Europa”?

Certamente l’europeismo polacco si sta trasformando nel contesto delle nuove sfide e delle nuove divisioni sin qui evocate. Per ora, a livello governativo è un europeismo che si vorrebbe sempre più “nazionale”, muscoloso, determinato a difendere il proprio interesse nazionale costi quel che costi. Ma, sembrerebbe, con scarsi risultati, se non retorici. Come se i proclamati “interessi nazionali” fossero “fuori fuoco”. I polacchi tratteggiati dai sondaggi appaiono molto più “europeisti” almeno in superficie. Il dato interessante mi pare il processo di “contrazione” dell’orizzonte europeo polacco o, per meglio dire, la sua regionalizzazione. La Polonia giustamente cerca la sua collocazione nel nuovo Est che va strutturandosi ai confini dell’Europa. Mentre l’Ucraina da periferica è dal 24 febbraio 2022 realtà centrale per tutto il continente che slitta così a oriente, la Polonia scopre ciò che la divide dall’Ungheria, il suo partner finora privilegiato nell’alleanza di Visegrád dell’Europa centrale. Budapest, infatti, non considera Mosca un pericolo né per l’Europa centrale né per l’Europa in generale, anzi nel corso degli anni l’Ungheria è addirittura diventata sostenitrice degli interessi russi nella regione.

Il punto di svolta è arrivato con l’invasione dell’Ucraina?

La guerra ha completamente spiazzato il sistema di alleanze della Polonia perché i vari alleati, colleghi e riferimenti politici internazionali dell’attuale governo (Orbán, Trump, Le Pen, la Lega) si sono dimostrati molto più filo-putinisti di quanto sia accettabile per il normale cittadino polacco. Possiamo immaginare lo sconquasso che tale “imprevisto” ha provocato. Intanto la Polonia cerca nuove alleanze con i paesi baltici, erige muri alla frontiera con la Bielorussia dittatoriale, punta sulla futura ricostruzione del vicino ucraino; nel frattempo rilancia tensioni con la Germania, sogna illusori binari privilegiati con gli Stati Uniti d’America, e spera in nuovi alleati europei, tra cui l’Italia. In sostanza: nulla di nuovo in apparenza in Polonia, se ci accontentiamo delle vecchie categorie analitiche. Grandi novità invece, tutte da decifrare, se cerchiamo di immergerci nei cambiamenti in atto: muta in profondità la società polacca per la sua ormai quasi ventennale appartenenza all’Ue, cambia il ruolo della Polonia in funzione di questa maledetta guerra, continua a evolvere e modificarsi l’intero incastro dei paesi europei (non tutti nell’Ue) in questa terza decade del XXI secolo.

Quale sarà il risultato?

Mi pare di osservare un movimento generale che può portare alla costituzione in Europa di una pluralità di macro-regioni, ciascuna capace di unire diverse forze nel segno della comunanza di interessi. Per esempio il quadrilatero Germania-Francia-Italia-Spagna. Per esempio l’area Baltico-Mare del Nord. Per esempio il “cantone” verticale Repubbliche baltiche-Polonia-Ucraina-Moldavia-Romania. Oltre queste ipotesi macro-regionali, tutte legittime, resta però la domanda essenziale: come rafforzare l’Ue? Come presentarsi ancora più uniti su una scala planetaria contrassegnata da nuove globalizzazioni tecnologiche ed economiche?

Nonostante le tensioni politiche, sappiamo che Varsavia non può permettersi una rottura categorica con Berlino per via del fitto interscambio commerciale. La richiesta di ottemperare alle riparazioni di guerra è solo una manovra pre-elettorale oppure il governo polacco andrà fino in fondo? Quali sono le ragioni storiche che dividono i due popoli e quali le condizioni che le mantengono vive e che le rendono capaci di influenzare il presente?

 Le relazioni polacco-tedesche con l’attuale governo del PiS (Diritto e Giustizia) sono indubbiamente peggiori rispetto al precedente governo di PO (Piattaforma Civica). Ma per riprendere un efficace paragone, Polonia e Germania sono un po’ come una vecchia coppia di sposi che dopo anni di vicinanza e aver litigato molto capiscono che non possono né vogliono divorziare (in mancanza di geografie alternative), così continuano a vivere insieme sebbene in modo blando, vieppiù in silenzio e con crescente indifferenza, come in un matrimonio “di convenienza”. Al momento le buone relazioni economiche e interpersonali, che sono effettive, non si traducono in un miglioramento delle relazioni politiche né tantomeno strategiche. In questo contesto, sollevare di recente da parte polacca la questione dei risarcimenti è stato dal mio punto di vista piuttosto assurdo, non per il fatto in sé, ma per il modo col quale si è agito: con molto “rumore” mediatico sul tema dei risarcimenti dovuti (parlare di riparazioni sarebbe stato più sensato?), ma alla fine con pochi benefici pratici e gravi turbolenze bilaterali.

Cosa pensa della responsabilità morale della Germania nella Seconda guerra mondiale?

Non c’è alcuna controversia, al contrario piena ammissione e consapevolezza. E quasi tutti i tedeschi europeisti capiscono che la responsabilità politica, umana o morale dei crimini di guerra tedeschi non conosce fine. Per molti politici tedeschi la questione è però da tempo chiusa perché secondo loro la Polonia ha già rinunciato a ulteriori risarcimenti nel 1953 e ha confermato questa decisione in diverse occasioni. Quindi, dal loro punto di vista, se si può ancora intervenire al riguardo oggi non è sulla base di un pagamento in denaro, bensì di un gesto politico (come la creazione di una fondazione o qualche altra forma di riparazione). Più stratificate sono le posizioni di quanti distinguono in Polonia tra la questione dei risarcimenti e delle riparazioni, gli aiuti alle vittime di guerra o le questioni relative alla restituzione delle opere d’arte trafugate e alle distruzioni deliberate e sistematiche di cui sono stati oggetto il patrimonio e la cultura polacca al tempo dell’invasione nazista.

È utile mettere insieme tutte queste tristi questioni?

Di certo, pare sbagliato con le riparazioni mettere in discussione il processo di riunificazione tedesca e del nuovo ordine dell’Europa che, nel 1990, era politicamente la soluzione più favorevole per la Polonia. Nel 1990 la questione delle riparazioni non venne sollevata da parte polacca perché altre erano allora la priorità, tra cui allontanare quanto prima l’Unione Sovietica dall’Europa centrorientale. Nel novembre 1990, è bene ricordarlo, fu firmato il Trattato che riconosceva il confine tra Polonia e Germania. E nel giugno 1991, Varsavia e Berlino firmarono il Trattato di buon vicinato. La questione dei risarcimenti interstatali fu in realtà chiusa allora, anche se si aprì la strada agli aiuti finanziari e umanitari alle vittime del Terzo Reich. Va aggiunto che anche prima del 1989 la Germania occidentale era impegnata ad aiutare le vittime polacche della guerra. Ciò premesso, sarà sempre una questione aperta stabilire se questo aiuto sia stato in passato ed è oggi sufficiente. Come si vede la questione è estremamente complicata, come ogni contabilità riguardante i drammi storici.

Però siamo realisti, oggi nessuno in Germania accetterebbe una contrattazione sulle riparazioni di guerra. Ergo, fino a che punto questo braccio di ferro può bloccare il dialogo tedesco-polacco?

 Personalmente sono convinto che il dialogo polacco-tedesco a 77 anni dalla fine della guerra e a 83 anni dal suo inizio debba trarre al più presto ogni utile e pragmatica lezione dal passato. Solo il Cremlino può trarre godimento dal protrarsi delle dispute tra tedeschi e polacchi. Oggi è nell’interesse primario della Polonia e della Germania superare definitivamente il peso della storia costruendo un asse positivo che poggi sulla propria duplice alleanza nell’Ue e nella Nato. Non ci può essere Ue senza Polonia o senza Germania. A tal fine in Polonia bisogna smetterla di giocare per riflesso condizionato la carta antitedesca. È pura isteria propagandistica affermare, come alcuni esaltati, che è la Germania l’odierno “nemico” della Polonia a ovest, come lo è la Russia a est; che Berlino “prosegue” la politica anti-polacca del III Reich; che attraverso Bruxelles e le istituzioni europee c’è Berlino che vuole condizionare e limitare “l’indipendenza polacca”.

E in Germania?

Bisogna smetterla con i finti dialoghi e scordarsi l’idea che non si debba mai cedere nulla alle ragioni della Polonia. I polacchi più seri domandano alla Repubblica Federale due cose. In relazione al passato, chiedono ai tedeschi di scusarsi una volta per tutte col cuore, concretamente, senza considerare le vittime polacche della Seconda guerra mondiale (circa 5,5 milioni di polacchi uccisi per mano tedesca, di cui circa 3 milioni di ebrei polacchi) meno importanti di altre vittime solo perché polacche. In proposito c’è chi propone forme di cooperazione che trattino i polacchi “in modo speciale” e sottolineino l’importanza delle relazioni polacco-tedesche. Per il presente e il futuro, si chiede alla Germania una visione della Russia completamente diversa da quella che Berlino ha adottato finora, che ha sottovalutato le minacce del Cremlino e reso il paese ostaggio delle forniture di gas russo. Da anni l’atteggiamento conciliante e favorevole della Germania nei confronti della Russia rappresenta un enorme, concreto ostacolo nelle relazioni bilaterali (vedi le accese polemiche intorno al Nord Stream).

Da cosa nasce questa priorità data dalla Germania alle relazioni con la Russia rispetto a quelle con i Paesi dell’Europa centrale e orientale (nonostante i superiori scambi economici)?

Inutile definirla “irrazionale”, figlia di irragionevole e “fatale infatuazione”. Di fatto è risultata da valutazioni, calcoli e interessi sbagliati che tali si sono rivelati con la guerra russa in Ucraina (dalla dipendenza energetica alla sicurezza). Peraltro, se Berlino continuerà a est con la sua politica “Russia First” sebbene tale politica abbia già subito aggiustamenti per effetto del prolungarsi della guerra, la Germania potrebbe perdere molti amici in Polonia, anche negli ambienti a lei più favorevoli. Servono, dunque, dialogo sincero e partenariato effettivo da ambo le parti. Ma in più le relazioni tedesco-polacche hanno bisogno ora di nuovo propellente simbolico per gli anni a venire, un grande gesto che sia più di una occasionale manovra politica, meglio se un grande progetto comune a favore di ambedue i paesi, a beneficio del nuovo Est europeo e a vantaggio di tutta l’Ue.

Ha in mente qualche progetto specifico?

 Sarebbe un grande risultato se fosse proprio l’energia la piattaforma della nuova alleanza tedesco-polacca. E, nonostante il triangolo ucraino polacco-tedesco sia quanto mai complesso, se non già prematuro, mi piacerebbe che il rilancio della collaborazione polacco-tedesca facesse perno nel 2023 sulla ricostruzione dell’Ucraina, non appena le condizioni lo permettano. Ma forse sono sogni invernali incoraggiati dai tramonti romani.

 


×

Iscriviti alla newsletter