All’indomani del tetto al prezzo del greggio russo, il taglio di produzione Opec+ e le interruzioni lungo le catene di produzione, l’indice Brent ha segnato il minimo del 2022. Ecco i motivi per cui sta calando (e cosa potrebbe farlo risalire)
Giovedì 8 e venerdì 9 dicembre il prezzo del greggio secondo l’indice Brent ha viaggiato tra i 76 e i 77 dollari al barile – la cifra più bassa del 2022. Non succedeva da fine 2021, ossia da prima che la Russia invadesse l’Ucraina e moltiplicasse l’incertezza su un mercato già provato dagli sbalzi della pandemia e dalla conversione alle rinnovabili. Dopo i picchi di marzo e giugno, quando l’indice ha sfondato i 120 dollari al barile, il prezzo del greggio ha seguito un trend ribassista.
Il declino del barile si conferma tale nonostante l’entrata in vigore del tetto al prezzo del petrolio russo e la decisione dell’Opec+ (il cartello di produttori che include anche la Russia) di tagliare la produzione. Nel giro di poche ore, i problemi lungo la catena di approvvigionamento si sono materializzati sotto forma di una coda di petroliere nello stretto del Bosforo – dove la Turchia ha da poco alzato le tariffe per il transito di merci. E parlando con la stampa a Bishkek, Vladimir Putin ha ripetuto che la Russia si sarebbe rifiutata di commerciare greggio con i Paesi aderenti al price cap, anche al costo di tagliare la produzione.
In teoria ci sono tutte le carte in regola per una fiammata dei prezzi. Che non si è avverata per una serie di motivi. In primis la struttura del price cap, progettato per colpire gli introiti russi ma non limitare i flussi di petrolio sul mercato globale. Se da un lato la gran parte dei Paesi occidentali ha già smesso di acquistare greggio russo negli ultimi sei mesi (dirottando i flussi verso Cina e India e ribilanciando il mercato), dall’altro le sanzioni dei Paesi occidentali – che forniscono gran parte dei servizi necessari per spostare il petrolio via mare – sono state ammorbidite per permettere alle petroliere di continuare a operare.
Da parte sua, la Russia continua a vendere la stessa quantità di greggio – anche se guadagna molto meno. L’indice di riferimento Urals è calato in picchiata nella scorsa settimana, attestandosi poco sopra i 52 dollari al barile, ampiamente entro il tetto al prezzo occidentale (fissato a 60 dollari). Oltre a risentire del trend ribassista più generale, la Russia è costretta da mesi a vendere il proprio greggio ampiamente scontato. In più subisce il fatto che gli acquirenti non aderenti al price cap possono usarlo come leva negoziale per abbassare il prezzo.
Aiuta la calata degli indici anche il fatto che i tagli annunciati dall’Opec+ siano relativamente bassi e probabilmente esagerati rispetto a quanto preventivato. Secondo gli analisti, invece dei 2 milioni di barili al giorno rimossi dal mercato, il totale è più vicino a 1 milione. Inoltre, dopo mesi a preoccuparsi di interruzioni dal lato dell’offerta, i trader ora stanno considerando la probabile recessione in arrivo e l’effetto che avrà lato domanda. In sostanza, al netto di tutto, sui mercati potrebbe esserci più petrolio di quanto ne serva.
Il trend ribassista sembra tenere. Ma ci sono diverse incognite che potrebbero invertirlo. Il primo è il progressivo abbandono della politica zero Covid da parte della Cina, il maggior consumatore di energia assieme agli Usa, che potrebbe portare a un netto aumento dei consumi e dunque a un forte aumento della domanda globale – la quale, a sua volta, non è ancora tornata ai livelli pre-Covid. Infine, diversi Paesi (tra cui gli Usa) dovranno tornare a riempire le riserve strategiche di petrolio cui hanno dato fondo nel corso del 2022 per contrastare il caro-energia.
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