Un risultato magro alle primarie non aiuta a soddisfare le ambizioni del candidato, ma la partecipazione, ancorché perdente, di per sé è garanzia di un risarcimento politico futuro. Così non si meravigli nessuno di trovare in lizza candidati dalla mission impossible: non è l’effetto di una sindrome egolatra mal curata, nossignore, ma un’astuta mossa che servirà a negoziare qualcosa con la nuova segreteria…
Le elezioni primarie sono un’invenzione americana. In quella terra lontana dove si coltivavano insofferenze verso quei bizantinismi europei chiamati partiti politici, le primarie per scegliere i candidati alla presidenza se le inventarono nel 1831. Nientedimeno. In effetti in un Paese pragmatico come gli Usa, maggioritarista fino al midollo, che non ha mai conosciuto la forma-partito ideologica e organizzata di stile europeo, le primarie, e cioè quel procedimento che consente ad un movimento politico di scegliere il candidato a successive elezioni, ci stanno tutte.
Nella piccola Europa che ha conosciuto la stagione dei grandi partiti di massa, e in modo particolare in Italia, che seppe declinare, in un passato non remotissimo, la centralità della forma-partito, le primarie sono un ricovero per la dirigenza a mascheramento di una difficoltà di produrre scelte condivise. Non è che godano di grande cittadinanza, beninteso, a parte quel surrogato digitale delle “parlamentarie” del M5S e le primarie del Pd. Sarà proprio il Pd a rivendicare, però, per anzianità di servizio (nel 2007 la prima primaria nazionale per scegliere il capo della coalizione) e per fedeltà allo strumento, il copyright dello primaria nazionale.
Molto italiana, infatti: a differenza delle primarie yankee, regolate e garantite (in modo diverso da partito a partito e da Stato a Stato), quelle italiane sono autoregolate dal Pd e aperte anche ai non iscritti, basta pagare l’obolo di un euro e condividere le idealità del partito. Il che, ovviamente, lo espone alle incursioni di bande di votatori professionali provenienti da chissà quale tribù. Si può essere pro o contro questo sistema di selezione della dirigenza di un partito ma, una volta adottato, bisogna essere rigorosi nella sua applicazione, evitando di disperderne il valore per il raggiungimento di obiettivi traversi.
Questa procedura, infatti, che il Pd celebrerà il 19 febbraio 2023, è stata usata spesso per cogliere obiettivi collaterali, diversi dal risultato della vittoria finale. Allo stato, infatti, sono annunciate diverse candidature, che hanno già registrato valutazioni da parte dei songaggisti. Il più popolare sembrerebbe Bonaccini col 32%, seguito dalla new entry Schlein col 17, De Micheli, con l’11 e in coda Matteo Ricci, con il 4. Naturalmente c’è ancora tempo per candidarsi o ritirarsi.
Allora, se si comprende la corsa dei primi due, c’è da domandarsi per quale motivo può candidarsi chi sa di avere chances irrisorie di conquistare la segreteria nazionale del Pd? Per avere una vetrina mediatica altrimenti difficile da recuperare? È possibile, certo. Ma questo ci porta dritti ai sottoprodotti finalistici, talvolta addirittura gli unici a tenere banco nella kermesse, come in occasione della scelta di Romano Prodi a candidato alla presidenza del Consiglio per il centro-sinistra. In quel caso non c’era partita: si sapeva dall’inizio che Prodi avrebbe vinto e con un grande vantaggio su tutti.
Ma le primarie “di coalizione” servirono ai candidati per altri obiettivi. Quali? Innanzitutto posizionamento delle bandiere identitarie e poi per staccare un bonus utile ad ottenere le candidature al Parlamento e per prenotare una partecipazione ad eventuali governi di coalizione. È chiaro, un risultato magro alle primarie non aiuta a soddisfare le ambizioni del candidato, ma la partecipazione, ancorché perdente, di per sé è garanzia di un risarcimento politico futuro. Così non si meravigli nessuno di trovare in lizza candidati dalla mission impossible: non è l’effetto di una sindrome egolatra mal curata, nossignore, ma un’astuta mossa che servirà a negoziare qualcosa con la nuova segreteria. Esprit italienne, de toute évidence…