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Perché non è una questione morale. Scrive Corbino

Di Alessandro Corbino

Quella italiana non è una questione morale. Non perché non ne esista una. Anzi. Ma perché essa è effetto, non causa della nostra presente condizione “politica”. Pretendiamo di vivere in democrazia, ma abbiamo smarrito l’importanza di mantenerne possibile la materiale praticabilità. Il commento di Alessandro Corbino, già professore ordinario di Diritto romano all’Università di Catania

Leggi scritte male e peggio applicate. Giudici disinvolti. Corruzione dilagante. Il degrado della nostra vita pubblica non sembra conoscere confini. Non v’è luogo o ambiente che non ne sia investito. Gli “incidenti” coinvolgono tutti. Dall’università alla magistratura, al Parlamento, alle istituzioni locali è un affiorare continuo di grandi e piccoli scandali. Al quale segue – ora sommessa, ora altisonante – la puntuale invocazione di catartici rinnovamenti morali. Spesso (infastidisce, ma non sorprende) per bocca di quanti sono stati essi stessi se non protagonisti attori almeno delle pratiche che ora biasimano. Il solo fatto che non cambia è il rassegnato puntuale riprendere dello scorrere quotidiano delle cose.

E tuttavia quella italiana non è una questione morale. Non perché non ne esista una. Anzi. Ma perché essa è effetto, non causa della nostra presente condizione “politica”.

Pretendiamo di vivere in democrazia, ma abbiamo smarrito l’importanza di mantenerne possibile la materiale praticabilità. Sarà anche vero che essa – come si attribuisce a Churchill – sia il peggior metodo di governo, eccezion fatta di ogni altro. Di sicuro è il più difficile. E altrettanto di sicuro non asseconda un esercizio virtuoso delle funzioni pubbliche. Non accadeva nell’antica Grecia (patria di quel metodo) e non è mai accaduto ovunque vi si sia poi ispirati. La funzione della democrazia è stata quella di essere ovunque argine verso un esercizio concentrato del potere politico. Non ne ha sempre scongiurato l’evenienza “fattuale”. Ma ne ha almeno impedito una possibilità “permanente”. Il rischio è che essa possa non esserlo più. E non lo scongiura certo la difesa che della declinazione corrente fanno coloro che ne “occupano” i luoghi di esercizio. Interessati come appaiono a mantenerne il controllo più che a restituirli ad una pratica efficace. Una strisciante, lenta ma inesorabile, sequenza di interventi apparentemente “di dettaglio” ne ha mutato da decenni (almeno in Italia) la configurazione, sconvolgendone assetti e pratiche. Si è perso di vista che ogni metodo di governo (incluso dunque quello democratico) esige una “coerente” architettura complessiva. Delle funzioni necessarie e della loro gestione.

Il metodo democratico è il più complesso di tutti. Lo è dal punto di vista delle “regole” che gli danno espressione. E lo è da quello della quotidiana attuazione delle stesse. Dal primo punto di vista, richiede (quale che sia la declinazione specifica che si adotti: governo “parlamentare”, ad esempio, ovvero “presidenziale”) che “tutte” le funzioni, ciascuna e nell’insieme, siano sorrette da una “coerente” visione. In un’articolazione di cose che non preveda gerarchie costanti. Dal secondo punto di vista, esige un “vigile” e “vigilato” esercizio che assicuri efficacia a ciascuna delle funzioni e ne prevenga usi deviati ed abusi. La nostra democrazia si è allontanata sempre più dall’essere “pratica” collettiva. Imperfetta, come non può non essere, ma almeno “accettabile” quale essa era stata nei primi decenni del secondo dopoguerra (nei quali le “deviazioni” non mancavano, ma nemmeno dominavano).

Non si è tenuto conto del fatto che i suoi assetti erano stati concepiti con riferimento ad un determinato contesto sociale. Mutato il quale sarebbe stato necessario un loro coerente ripensamento. Non è accaduto. Il nostro è diventato un sistema nel quale – nei fatti – “gruppi” (piccoli e grandi) fanno valere (ovunque lo possano) non “aspirazioni” (come sarebbe “proprio”) ma direttamente la “forza” degli interessi che essi coltivano. L’azione di governo appare sempre meno “mediante” verso i molti e sempre più “negoziata” con i pochi. Non viviamo più di “diritti”, ma di “concessioni”. Non “osserviamo” doveri, ma “concordiamo” prestazioni.

Scontiamo la conseguenza dell’avere consentito (tutti, ciascuno di noi nel piccolo che lo riguarda) che un ordine “politico” costruito su “regole” (forme) che presupponevano determinati assetti sociali (un fatto per natura storico e dinamico) potesse funzionare in un mutato contesto. Un ordine pensato per una società che – benché divisa per interessi e aspirazioni – era comunque abbastanza omogenea (per valori di riferimento) ha ceduto il passo ad un ordine sociale molto più “relativista” (dal punto di vista morale), “complesso” (da quello economico) e “multi-orientato” (da quello culturale). Gli strumenti “medianti” (partiti, in primo luogo) pensati per quell’ordine antico (e in relazione ad esso efficaci il possibile) si sono disarticolati, sostituiti (a regole inalterate) da “centri” di aggregazione molto più “agili” (movimentabili) e “parcellizzati” (perché parcellizzata si veniva facendo la cultura sociale). Con gli effetti che tutti oggi osserviamo.

In materia di azione “parlamentare” e di “governo”, ne è venuta una frammentazione delle posizioni, che ha reso nei fatti quelle azioni (prive per natura di effettività immediata) sempre più incerte e deboli. Consentendo la contestuale consolidazione di centri “indipendenti” di potere (economico e culturale, ma anche politico, come il giudiziario) che – giovandosi della “effettività” ben più immediata della loro azione – hanno preso il sopravvento sull’azione “politica”, controllandone la direzione in ragione del loro diretto “insediamento” nei luoghi della decisione.
Com’è sotto gli occhi di tutti, nulla è cambiato (sotto l’aspetto etico). Le classi politiche e dirigenti non hanno mutato costume. Scandali erano e scandali sono. Solo che una volta essi coinvolgevano pochi e oggi coinvolgono tanti. Segno che le istituzioni non riescono più a fare argine (nemmeno nella misura nella quale un tempo riuscivano).

Invocare illusorie conversioni morali è condannarsi a questo stato di cose. La questione è “politica”. Si lega alle forme di questa e alle (dipendenti) modalità delle relative pratiche. Le une e le altre non si inventano. E nessuno dunque di noi può dire agevolmente quale possa essere una soluzione appropriata ad una società mai stata così complessa come l’attuale. Di certo non può essere improvvisata. Meno che mai dettata da invasati profeti. Dovrà essere il risultato di un aperto, approfondito e “colto” confronto.

È ancora possibile? Non possiamo dire. Ma possiamo nutrire forse ancora la speranza che i molti che ne hanno gli strumenti culturali si adoperino (nei tanti luoghi del loro influente operare: nei partiti, nelle università, nei media) per ridare rilievo e dignità alla discussione. Convergendo (per il provvisorio tempo necessario) su un’azione di orientamento, che agevoli una meditata “riscrittura” condivisa delle regole fondamentali della nostra vita collettiva. Le attuali non sono in grado – all’evidenza – di arginare le pratiche distorsive nelle quali essa è precipitata. In una società aperta e libera (“politica” appunto) le regole non possono essere concepite come vincolo assoluto (metastorico, alla maniera di comandamenti divini). Devono restare un fatto “storico”. Come storica è (per costumi e convinzioni) la società che le adotta.

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