Skip to main content

Technopolicy – Zeno Zencovich, il diluvio regolatorio europeo

L’Europa non potendo offrire il pane della tecnologia produce grosse ceste di croissant normativi destinati ad essere consumati in “casa”. Se producessimo tanta tecnologia quanti regolamenti e norme saremo una superpotenza a tutti gli effetti. Vincenzo Zeno Zencovich, professore ordinario di diritto comparato all’Università Roma Tre, ci racconta come navigare l’oceano di norme in cui galleggiano – a fatica – aziende e consumatori

Technopolicy, il podcast di Formiche.net

All’incrocio tra tech e politica, tra innovazione e relazioni internazionali, tra digitale e regolazione, abbiamo deciso di creare un nuovo “contenitore”, Technopolicy.

Ogni settimana incontrerò esperti, accademici, manager, giuristi, per discutere di un tema specifico e attuale. Ciascuno di questi incontri diventerà un video su Business+, la nuova piattaforma tv on demand; un podcast su Spreaker, Spotify, Apple e gli altri canali audio; un articolo su Formiche.net. Perché ognuno ha il suo mezzo preferito per informarsi e a noi interessa la sostanza e non la forma. Gli episodi sono stati scritti e prodotti insieme a Eleonora Russo.

________________

Clicca qui per vedere l’episodio integrale su Business+, la tv on demand

 

Clicca qui per ascoltare il podcast su Spotify
Clicca qui per ascoltare il podcast su Apple podcast
Clicca qui per ascoltare il podcast su Spreaker

________________

 Technopolicy – Il diluvio regolatorio europeo

Accordo sul trasferimento dati, Gdpr, Digital Markets Act, Digital Services Act, AI Act, cioè il nuovo regolamento sull’intelligenza artificiale, e poi Data Governance Act e Data Act. Questi sono solo alcuni dei pacchetti legislativi approvati o in via di scrittura da parte delle istituzioni europee. Siamo davanti a una “orgia regolatoria”, come dice il nostro ospite della puntata. Riusciranno a integrarsi tra loro oppure dovremmo leggerci ogni volta centinaia di articoli per capire come gestire i nostri dati e le nostre vite digitali? Vincenzo Zeno Zencovich, professore ordinario di diritto comparato all’Università Roma Tre, ci racconta come navigare l’oceano di norme in cui galleggiano – a fatica – aziende e consumatori.

Ci racconta il suo percorso professionale?

La mia storia professionale ha ben 40 anni e coincide con l’uscita della Convenzione del Consiglio d’Europa n.108 del 1981 in materia di protezione dei dati personali. Si tratta di una materia che all’epoca era molto nuova e da allora mi è rimasta “appiccicata” addosso innescando una crescente attenzione per le tecnologie digitali. Devo dire che più vado avanti e più preferirei occuparmi di archeologia piuttosto che di questioni che riguardano il futuro, ma purtroppo non si sceglie tutto nella vita.

Quando si parla di tecnologia, i dati sono uno dei dossier più spinosi del rapporto transatlantico. Il caso Google in Spagna del 2014 ha scoperchiato il vaso di Pandora e ha aperto una crepa nella relazione tra Big Tech ed Europa con effetti destinati a protrarsi nel tempo. Nel 2022 la svolta, con l’annuncio congiunto di Ursula von der Leyen e Joe Biden di un accordo sul trasferimento dati Ue-Usa. Qual è lo stato delle cose e soprattutto quale può essere la strada per trovare una regolazione comune sul tema?

Sul tema sono abbastanza pessimista e non vedo molte strade aperte. Ma facciamo un passo indietro. Precisamente al 2014 e alla sentenza Google Spain con cui la Corte di Giustizia dell’Unione europea sancisce, contrariamente a tutta la giurisprudenza precedente, il controllo dei diritto europeo in materia di protezione dei dati. Un controllo esteso non solo alla fattispecie, e cioè a Google Spain a cui veniva imputato di raccogliere i dati degli inserzionisti spagnoli, ma all’intera Google. Il caso in questione, come forse molti sapranno, è quello originato dalla sentenza della Cgue che introduce il cosiddetto diritto all’oblio, cioè il diritto ad essere cancellati e de-indicizzati dai motori di ricerca.

A partire da questa situazione, si genera un paradosso che a me piace raccontare in maniera un po’ scherzosa: c’è un signore oscuro, tale Mario Costeja González, proprietario di una casa nei pressi di Barcellona che per non aver pagato alcune somme destinate alla previdenza sociale si vede pignorato l’immobile, che viene poi venduto all’asta. La notizia compare in un trafiletto di cronaca giudiziaria sul quotidiano spagnolo la Vanguardia. Vent’anni dopo il signor Costeja si accorge che immettendo il suo nome nel motore di ricerca Google viene ancora indicizzata la notizia, nel frattempo digitalizzata. Il paradosso di questa controversa infinita è che il diritto all’oblio, sancito con la sentenza, ha di fatto determinato una notorietà planetaria per il sig. Costeja con una sorta di diritto all’esibizionismo.

Da quel momento in poi l’Unione europea, in parte con la Cgue e in parte con il lavoro della Commissione e del Consiglio, tenta di affermare un diritto extraeuropeo alla tutela dei dati con un atteggiamento decisamente imperialista. Ovviamente, questa condotta non è stata vista di buon occhio da Stati Uniti e Cina che, a loro volta, hanno reagito con misure contrapposte a una disciplina dei dati interamente europea.

Il Cloud Act americano, infatti, stabilisce che i dati raccolti dagli Internet service provider vengano disciplinati dal diritto e dalla giurisdizione degli Stati Uniti senza possibilità di imboccare la strada dell’extra territorialità. Stiamo parlando di una guerra geopolitica sul fronte dei dati che vede contrapposti questi soggetti.

Questo è l’anno del Dma-Dsa, cioè il pacchetto legislativo Ue sul digitale che entrerà in vigore nel 2024 e avrà un grande impatto sulle aziende tecnologiche. L’obiettivo è duplice: disciplinare un mercato, quello digitale, finora poco regolato e contribuire alla creazione di campioni europei capaci di competere nel mercato internazionale delle piattaforme e dei servizi online. Secondo lei, questa strategia funzionerà? L’Unione europea riuscirà ad affermarsi come la superpotenza regolatoria che ambisce ad essere?

Rispondo con una battuta. L’Europa non potendo offrire il pane della tecnologia produce grosse ceste di croissant normativi destinati ad essere consumati in “casa”. Se producessimo tanta tecnologia quanti regolamenti e norme saremo una superpotenza a tutti gli effetti. Proprio per quell’illusione tutta europea per cui attraverso la legislazione si ritiene di poter recuperare il gap industriale che separa l’Ue dagli altri player mondiali. Stati Uniti e Cina in pole position.

A proposito di Digital Markets Act e Digital Services Act, e di questa tendenza all’iper regolamentazione, vorrei ricordare che il pacchetto è integrato dai regolamenti in materia di dati personali del 2016, dal Data Governance Act, dal Data Act, dall’Artificial Intelligence Act e da un regolamento già in vigore sulla circolazione dei dati non personali.

Anche in questo caso utilizzo una metafora antropocentrica. Cosa fanno due norme da sole in un cassetto di notte? Per impiegare il tempo, si uniscono tra loro e cominciano a procreare e a riprodursi. Questa immagine descrive bene l’attuale situazione in tema di disciplina dei dati per cui, se osserviamo e analizziamo il pacchetto nella sua interezza, notiamo che ci sono ben 321 Considerando (cioè quelle premesse che spiegano il senso del testo giuridico) a cui vanno aggiunti articoli, allegati, eventuali sub regolamenti e quindi la possibilità di moltiplicare ancora il numero di norme.

Da un punto di vista normativo questa situazione equivale a un incubo, soprattutto per le future generazioni di giuristi alle quali spetterà un’enorme quantità di lavoro. Tutte queste disposizioni, infatti, creano problemi di enforcement e di contestazione perché ovviamente ci vogliono autorità che siano in grado di vigilare sulla loro corretta applicazione. Tutto questo determina una maggiore incertezza del sistema normativo soprattutto per le imprese che sono in difficoltà nel seguire il combinato disposto di queste indicazioni. In linea generale, vedo questa condotta come un esercizio di carattere protezionistico, come un wishful thinking che non incentiva in alcun modo lo sviluppo dell’industria digitale europea.

Alcuni settori sono molto difficili da regolare ex ante. Penso ad esempio all’intelligenza artificiale. A questo si aggiunge il coinvolgimento degli operatori, delle aziende, delle autorità nazionali che intervengono nei vari Stati membri. Secondo lei la capacità di regolazione europea sarà legata alla realtà, alla concretezza dei singoli settori oppure a Bruxelles andranno avanti senza guardarsi intorno?

La seconda opzione mi sembra la più probabile. La situazione mi pare una palude regolamentare nella quale tutti rimarranno impigliati a cominciare dalle istituzioni europee. Noi europei pensiamo di difendere i nostri valori, i valori dell’individuo e l’autodeterminazione ma se l’innovazione tecnologica arriva da altri Paesi ne siamo inevitabilmente dipendenti e dobbiamo trovare il modo di accettarlo.

In tutto questo profluvio regolamentare interviene la Corte di Giustizia che ha vari modi di risolvere i dubbi legislativi ma alla fine la strategia che predomina è quella di riconoscere la regolamentazione straniera come non conforme alla giurisprudenza nazionale, risultati ottenuti  dopo il caso Google Spain e alle sentenze Schrems.

L’accordo tra Joe Biden e Ursula Von der Leyen mi sembra una photo opportunity, non capisco come si possa arrivare a un compromesso quando la posizione americana ed europea sono molto chiare. A mio avviso non sono assolutamente conciliabili: da entrambe le parti non c’è la volontà di fare un passo indietro ma gli americani, dal punto di vista tecnologico, sono dominanti ed è questo che devono comprendere le istituzioni europee. Le nostre imprese hanno bisogno di quella tecnologia e soprattutto che questa venga costantemente aggiornata, come nel caso dell’IoT in cui gli oggetti fisici sono collegati tra loro, o degli investimenti di Tesla in Europa. L’azienda di Elon Musk, ad esempio, è semplicemente un processore di dati con un involucro di metallo ed è impensabile voltare le spalle a questo tipo di innovazioni per la mancanza di un accordo normativo. Si tratta di un esempio banale, ma quando si parla di tecnologie avanzate come la meccatronica è impossibile fare a meno degli americani. Tutto ciò non porta da nessuna parte ma la linea politica europea è questa e ne prendiamo atto.

In ambito dati, alla luce di questa situazione, si può trovare un principio di base comune, una qualche forma di regolazione minima per mantenere attivo il processo evolutivo delle tecnologie senza incorrere in una soluzione forzata?

Un’alternativa a livello teorico c’è, ed è stata prospettata in Giappone dove certamente non manca l’intelligenza e la tecnologia. La loro idea è quella di limitarsi a normare i grandi principi di carattere generale che poi si applicano di volta in volta in maniera diversa alle varie circostanze che mutano. Naturalmente questo richiederebbe di azzerare un gigantesco sistema regolatorio per cui personalmente non mi pare un’alternativa molto realistica.

Ci consiglia qualcuno da leggere o seguire?

Raccomando un libro di Stéphane Grumbach, autore francese, informatico e direttore dei centri di ricerca della Scuola Normale Superiore di informatica di Lione che si intitola L’empire des algorithmes. Grumbach, nel testo, affronta tre concetti. Il primo riguarda il modo in cui gli informatici hanno conquistato il vocabolario moderno trovando lo spazio di imporre le proprie parole che, prima del boom tecnologico, erano espressioni che nessuno conosceva mentre ora parliamo tutti “digitalese” e questo qualcosa vorrà sicuramente significare. Il secondo punto molto importante si concentra sull’idea di potere che da sempre, fin dai tempi più antichi, è strutturato come quello che noi oggi definiamo con il termine piattaforma. Il potere vede convergere a sé tutta una serie di informazioni e di attività di elaborazione di queste informazioni. Il terzo ed ultimo concetto espresso da Grumbach riguarda la sua visione del mondo: gli imperi digitali da una parte e le colonie digitali dall’altra. L’autore ha vissuto 15 anni in Cina, sua moglie è cinese, parla perfettamente la lingua, e per questo ha sviluppato grandi competenze nella gestione dei rapporti tra Europa e Cina. Nel libro sottolinea che ci sono imperi digitali come Usa e Cina e colonie digitali nelle quali rientra anche l’Europa. Credo che su queste tesi ci sia molto su cui riflettere.



×

Iscriviti alla newsletter