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Democrazia ibrida. Il futuro del liberalismo secondo De Luca

Nell’epoca delle catastrofi – guerre, crisi climatica, pandemie – gli Stati occidentali faticano a trovare il giusto compromesso tra gestione dell’emergenza e tutela dei valori fondanti di una società democratica. Quale futuro? Ne abbiamo discusso con Valerio De Luca, direttore della Scuola “Carlo Azeglio Ciampi” di Politiche Economiche e Sociali

Nell’epoca delle catastrofi – guerre, crisi climatica, pandemie – gli Stati occidentali faticano a trovare il giusto compromesso tra gestione dell’emergenza e tutela dei valori fondanti di una società democratica. Quale futuro? Ne abbiamo discusso con Valerio De Luca, direttore della Scuola “Carlo Azeglio Ciampi” di Politiche Economiche e Sociali e autore del libro “Lo stato globale di emergenza” (Giuffrè).

La domanda centrale del libro: qual è il  futuro della democrazia liberale?

Le continue crisi sistemiche lasciano crescere un’onda che sovrasta le costituzioni nazionali e lo stato di diritto. L’eccezione, l’emergenza e la gestione tramite poteri straordinari per contenerla diventano appunto tecnica di governo, di un eccezionalismo a livello globale. Possiamo pensare, per esempio all’eccezionalismo statunitense, a partire dall’11 settembre 2001 e le seguenti reazioni, come il Patriot Act. Reazioni che vanno a sospendere i diritti civili, i diritti umani, quelle caratteristiche che sono alla base delle democrazie liberali. Portando il discorso ad oggi potremmo fare gli esempi della pandemia, o della crisi climatica.

E poi c’è il tema dell’economia di mercato.

Certo, ulteriore elemento caratterizzante le democrazie liberali. I fenomeni di reshoring, di de-globalizzazione, determinati dalla competizione geopolitica tra Cina e Stati Uniti, portano a forme di protezionismo, di aiuti di Stato. Lo vediamo con le frizioni di queste settimane tra europei e statunitensi sull’Inflation Reduction Act, che secondo gli europei mina la libera concorrenza. Per quanto riguarda l’Italia c’è ovviamente l’esempio del golden power, della tutela dei settori strategici. Questi diventano i temi centrali di uno Stato-stratega che mette in discussione i propri princìpi di base, da un lato, e dall’altro i princìpi della concorrenza. Si affermerà, quindi, sempre di più un regime ibrido: la democrazia sopravviverà, ma spesso si dovranno derogare alcune regole del vivere democratico che davamo per scontate.

Chi beneficia di questi trend?

Gli attori che risultano vincitori sono gli oligopolisti digitali, le Big Tech, che cercano di sfidare gli Stati. Da questo punto di vista non si pone tanto un problema di monopolio o oligopolio, ma il punto è proprio il contendersi, tra Stati e grandi gruppi, la legittimità del potere. Il paradigma alla base della legittimità di qualunque Stato è quello di scambiare salute e sicurezza per i propri consociati, in cambio di ubbidienza e consenso. Nel momento in cui lo Stato non è in grado di garantire salute e sicurezza di fronte alle emergenze, le comunità si affidano a uno stato “bio-tecnologico”: un’entità totalmente compenetrata da Big Tech. Tutto questo in un processo consensuale.

Cosa ci promette la tecnica?

Per le masse promette salute e sopravvivenza in cambio di controllo, mentre per una super-casta vuole garantire anche il super-vivere. Queste sono ormai realtà su cui si lavora attivamente, pensiamo ad esempio a Elon Musk o a Jeff Bezos, il confronto diventa tra poteri privati. Mentre prima la lotta era tra gruppi di Stati, ora lo scontro è tra Stati e privati. Da qui deriva la necessità di considerare taluni privati come attori paralleli alle entità statuali, non più come individui sottoposti a normale regolamentazione.

Se il trend è quello verso Big Tech, che differenza c’è tra il modello cinese e quello statunitense?

Le autocrazie, per definizione, non hanno proprio il concetto di diritti umani. Quindi hanno, nell’ottica dell’amministrazione dell’emergenza, un vantaggio competitivo, riuscendo a giustificare il controllo delle masse. Pensiamo ad esempio al sistema di credito sociale in Cina, o agli aiuti di Stato che Pechino elargisce alle proprie aziende strategiche. Invece, il tema della libertà individuale è al centro dei Paesi liberali, anche se diventa un ostacolo nel momento in cui si corre per la supremazia tecnologica, scatenando i dibattiti che vediamo, ad esempio sulla privacy. Anche qui si ritorna all’amministrazione dei problemi in maniera emergenziale.

Di cosa deve tenere conto la classe politica nel fare proposte?

Sul piano interno la tendenza è quella di un cambiamento della forma di governo e di riforma della Costituzione. La necessità è quella di verticalizzare la decisione di ultima istanza, ovvero potenziare l’esecutivo, in una forma ibrida tra autocrazia e democrazia. Se non vogliamo chiamarla “governo dei migliori” potremmo definirla “tecno-democrazia”. Il punto è che le emergenze hanno sempre più bisogno di specialisti per gestire i rischi e contenere gli eventi catastrofici. Dunque, l’obiettivo principale del sovrano diventa quello di garantire alla popolazione i beni primari, in quello che io definisco “tecno-populismo”. Da un lato la necessità delle competenze, dall’altro queste non servono a soddisfare le esigenze di un’élite, ma gli interessi generali.

Ad esempio?

L’esempio classico è quello del governo di Giorgia Meloni. Una fotocopia, nella parte tecnica, del governo di Mario Draghi. Dall’altra parte adotta misure identitarie, “populiste” per dare conto ai propri elettori. Ulteriore elemento di questo discorso è quello dell’eccezione alla legalità. Intendo dire che lo stesso potere legale, per sopravvivere in tempi di emergenza, strizza l’occhio a fenomeni di illegalità. L’esempio principe è quello dell’evasione fiscale e dei condoni. Non dico che sia volutamente incentivato dal governo, ma di fatto si va ad attingere al nero per aumentare la domanda interna. Queste sono misure di emergenza, che servono al governo per legittimarsi e ottenere consenso, ed evitare le rivoluzioni. Tra nuove norme emergenziali e poteri speciali si crea un nuovo ordinamento di fatto, una nuova costituzione materiale.

Cosa deve fare l’Italia per restare a galla in queste dinamiche?

Per l’Italia nel concreto si parla di cooperazione sempre più stretta con l’Europa e con gli Stati Uniti, su linee di intervento che portino a autonomia strategica, alla sovranità digitale, a un ruolo attivo nel Mediterraneo. Il punto è potenziare le nostre leve nei tavoli negoziali per rafforzarci sul piano internazionale, e non finire nella serie B dell’Unione Europea.


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