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Twitter e le nuove regole di Elon Musk. Vox populi, vox follower?

Il popolo invocato da Musk è finzione e nulla più, un paradosso semantico per supportare decisioni autocratiche. Il suo pretestuoso richiamo all’antica locuzione vox populi, vox dei sarebbe da riformulare in un modo più coerente e autentico: vox follower, vox algorithmus. Il commento di Domenico Giordano, Arcadia

Mi spiace molto contraddire Elon Musk. Anzi, correggo al volo il tiro, non mi dispiace affatto potergli rimproverare l’uso inappropriato, nonché ripetuto nell’ultimo mese, della locuzione medioevale Vox Populi, Vox Dei.

Sentenza che ha twittato più volte e, in particolare, quando si è trattato di ufficializzare i risultati dei social sondaggi promossi per la riabilitazione dell’account dell’ex presidente statunitense Donald Trump o di tutti quelli sospesi in passato per altre violazioni alla policy di Twitter. In entrambi i casi, Musk ha presentato l’esito finale delle scelte dei follower con la formula “the people have spoken”, che possiamo tradurre tranquillamente in “il popolo ha deciso”.

Solo che il richiamo al concetto di popolo, nella forma latina o nell’accezione inglese non importa, fatto strumentalmente dal più influente e visionario agit-prop che Twitter abbia mai conosciuto nei suoi sedici anni di vita, è sbagliato e fuorviante.

L’ontologia dei social network ha espulso coscientemente dalla propria natura l’idea stessa di popolo e, se esistesse per davvero, quella di popolo digitale. Le comunità social sono invero insiemi atomizzati, micro-cosmi in costante scomposizione e ricomposizione, aggregati digitali occasionali, dunque quanto più lontano c’è dall’idea stessa di cittadinanza, così come formulata nell’età contemporanea. Le piattaforme non sono abitate da entità olistiche, non c’è uno spazio di cui un corpo unico e unitario prende possesso, perché queste sono ab origine il rifugio ideale dell’individualismo, matrice ontologica del follower, che è tale fino a quando la sua natura rimane: egoista, solitaria e utilitaristica.

Adesso, senza voler scomodare filosofi, storici e sociologi, tantomeno quei rivoluzionari che con la parola e la baionetta hanno sovvertito ordini e nazioni in nome di un popolo sovrano, potrebbe essere sufficiente in questo ragionamento stralciare dagli scritti di Rousseau e di Hegel alcune riflessioni sul concetto. Il primo scriveva che “gli associati prendono collettivamente il nome di popolo, e sono, uno per uno, cittadini in quanto partecipano all’autorità sovrana, e sudditi in quanto sottoposto alle leggi dello Stato”.

Per il filosofo tedesco, un “popolo senza Stato, cioè senza istituzioni politiche e la relativa gerarchia, sarebbe un aggregato, una forza selvaggia e cieca votata all’autodistruzione”. In entrambi, al netto delle differenze, c’è un denominatore comune che qualifica l’esistenza di un popolo: l’accettazione e la condivisione di un’autorità e di un patrimonio di leggi, ovvero di diritti e doveri che valgono indistintamente per tutti gli associati e che garantiscono il bene della collettività stessa.

La vita digitale dei follower, al contrario, è governata da un codice – l’algoritmo – che gli stessi associati non conoscono affatto, non possono modificare e tantomeno, mettere in discussione. La sovranità dell’algoritmo è a-costituzionale tanto che il follower non è mai un suddito, al più semplicemente un ospite che può essere messo alla porta in qualsiasi momento.

Così il popolo invocato da Musk è finzione e nulla più, un paradosso semantico per supportare decisioni autocratiche. Il suo pretestuoso richiamo all’antica locuzione vox populi, vox dei sarebbe da riformulare in un modo più coerente e autentico: vox follower, vox algorithmus.

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