Sono passati quasi dieci anni dalla morte di Gheddafi ma la situazione il Libia continua a preoccupare entrambi i Paesi. Petrolio e gas certo sono alla base delle relazioni ma Roma può e forse deve vedere al di là del pur essenziale rapporto commerciale e disegnare una vera e propria politica estera nei riguardi del Mediterraneo
Nel marzo del 2012, pochi mesi dopo caduta definitiva del regime in Libia di Muammar Gheddafi conclusosi con la sua morte, si riunirono nel complesso militare Ben Aknoun di Algeri alti funzionari dei servizi di intelligence di Paesi del Magreb (assente per ovvie ragioni il Marocco) e dell’Africa Subsahariana. Si trattava di una riunione preparatoria per un incontro che si sarebbe tenuto qualche mese più tardi tra i direttori dei servizi. Tra i punti all’ordine del giorno c’era la situazione libica che molto preoccupava (e tutt’ora preoccupa) Algeri per i rischi di spillover di disordini e terrorismo nel proprio territorio. Ma non era il solo tema: al punto 5 l’agenda dei lavori prevedeva una discussione sul “piano Mattei” aggiornato certo ma che prende la basi dal famoso (e rivoluzionario) discorso tenuto da Enrico Mattei nel novembre 1957 al Centro studi di politica estera di Parigi (e il fatto che l’abbia pronunciato in Francia costituisce una seconda provocazione dal momento che Mattei rappresentava una fonte di costante preoccupazione per la diplomazia francese). Il presidente dell’Eni non ebbe timore di dire che “il petrolio è una risorsa economica per eccellenza, fin dall’epoca in cui la sua importanza era più strategica che economica. Si tratta di utilizzarlo al servizio di una buona politica (…) che miri al mantenimento della pace ed al benessere di coloro che, grazie alla natura, sono i proprietari di questa risorsa e di coloro che l’utilizzano per il loro sviluppo economico”.
Oggi Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, sarà ad Algeri per discutere di forniture di gas certo ma anche di un piano più ambizioso che ricalca un aggiornato Piano Mattei. Dopo aver dunque rassicurato Bruxelles, Francoforte e Washington, aver dribblato alcune timide ritrosie in seno alla maggioranza sull’appoggio all’Italia all’Ucraina e scartato il trasformismo contiano, la politica estera del nuovo governo si rivolge dunque al Mediterraneo.
A volte la storia ritorna. Nel 1955, l’Italia si propone agli Stati Uniti per un ruolo primario nell’alleanza atlantica per i rapporti con i Paesi del bacino del Mediterraneo e nel 1957 viene ideato il piano Pella, dal nome dell’allora ministro degli Esteri italiano Giuseppe Pella, che prevede aiuti dell’Occidente ai Paesi del Mediterraneo pagati dagli Stati Uniti tramite i rimborsi dovuti per i prestiti del piano Marshall.
L’Italia per ragioni storiche, culturali e soprattutto geografiche è al centro del Mediterraneo e, volenti o nolenti, le relazione con il Nord Africa devono essere al primo punto della nostra politica estera. Questa situazione c’è sempre stata e la guerra in Ucraina, che ha scatenato la corsa ha diversificare ulteriormente le nostre fonti di approvvigionamento energetico, non è che un catalizzatore di un esigenza che l’Italia ha sempre sentito come propria.
Il fil rouge che lega i nostri rapporti con Algeria, Libia, Egitto e Tunisia (che non ha fonti energetiche fossili ma che è paese di transito del gasdotto Transtunisino che porta il gas dall’Algeria alla Sicilia), è il petrolio e il gas certo. Ma l’Italia può e forse deve vedere al di là del pur essenziale rapporto commerciale e disegnare una vera e propria politica estera nei riguardi del Mediterraneo.
La situazione libica preoccupa tanto l’Italia quanto l’Algeria e l’Italia, con lo sguardo orientato a Nord-Est a causa della guerra ucraina, sembra essersene dimenticata (tranne il nostro comparto di intelligenge considerato da tutti gli alleati un punto di riferimento nel cogliere le decine di sfaccettature della complessa società tribale libica). Il colonnello algerino Fouad, un nome che ritengo essere inventato come si usa fare, è stato molto diretto nell’affermare che Italia e Algeria hanno un confine in comune: la Libia.
Un confine che guarda anche alla Russia dal momento che non a caso recentemente Bill Burns, direttore della Cia, si sia recato a Tripoli per incontrare il primo ministro Abdel Hamid Dbeibah e il generale Khalifa Haftar e per colloqui sul petrolio il gas e l’antiterrorismo dal momento che in Libia opera il famigerato gruppo Wagner.
Il fatto poi che vi sono segnali di una recrudescenza di gruppo estremisti e islamici nelle aree a Ovest di Tripoli e nella regione del Fezzan, al confine con l’Algeria, è un campanello di allarme anche per l’Italia dal momento che spesso questi gruppi di finanziano anche con l’immigrazione clandestina.
Forse a questo si riferiva il colonnello Fouad. Abbiamo un confine comune. Che va difeso.