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L’espansione cinese nel Pacifico non va liscia come speravano a Pechino

La Repubblica Popolare va avanti con investimenti nell’aerea pacifica da un decennio nel tentativo di scalzare l’influenza statunitense. Le Isole Salomone sono sempre state la vetrina di questa attività per i media di Stato cinesi. Ma la popolazione locale non vede più di buon occhio una presenza che giudica ingombrante e foriera di conflitti tra corruzione, metodi repressivi e scarso rispetto delle comunità. E le Fiji non vogliono più rinnovare l’accordo in materia di polizia e sicurezza

Il quotidiano statunitense New York Times racconta in un reportage come gli investimenti cinesi nelle Isole Salomone siano esemplificativi delle tattiche di espansionismo della Repubblica Popolare nella tradizionale area di influenza angloamericana.

A circa 1500 chilometri a nordest dalle coste nordorientali dell’Australia, con una popolazione di 700mila abitanti, indipendenti dal Regno Unito dal 1978, le Isole Salomone sono nel mirino di Pechino da almeno due decenni, soprattutto per la posizione strategica di proiezione verso il Pacifico, per i porti ad acqua profonda, per i siti di comunicazione satellitare.

I primi imprenditori cinesi che si sono trasferiti nel Paese sono stati accolti piuttosto bene da una popolazione fortemente bisognosa di sviluppo e investimenti nelle infrastrutture. Tuttavia, le promesse iniziali non sembrano essere state mantenute. Il New York Times riporta di condizioni di lavoro non sicure e nel totale sfruttamento, con gli operai che subiscono violenze e minacce in caso di protesta. Oltretutto le attività locali – già scarsamente sviluppate – non reggono minimamente la competizione con una superpotenza economica.

La classe dirigente locale è rimasta ad osservare Pechino infilarsi in ogni angolo dell’economia e della politica, impotente di fronte alla vastità delle risorse messe in campo. Tre anni fa, la Cina ha aperto una grande ambasciata a Honiara, ha iniziato la costruzione di un enorme stadio e ha siglato accordi segreti con il governo in materia di sicurezza, aviazione, telecomunicazioni e altro. I politici e funzionari che si sono opposti alle azioni cinesi non sono stati attaccati fisicamente, ma i loro avversari sono divenuti improvvisamente ricchi.

Ulteriore tema è quello della democrazia. La popolazione locale è abituata a un alto livello di partecipazione nelle decisioni che riguardano la collettività. Le comunità sono solite consultarsi lungamente prima di adottare scelte. Non esattamente lo stile di governo dell’ingombrante vicino cinese.

Per anni, Pechino ha pompato investimenti in giro per il mondo, per tornaconto economico, ma soprattutto per acquisire influenza geopolitica. Le Isole Salomone sono state raccontate dai media di Stato come un modello di ciò che gli sforzi internazionali cinesi possono realizzare. Tuttavia, gli abitanti vedono sempre di più la Repubblica Popolare come una forza imperiosa e, soprattutto, foriera di conflitti. In particolare da quando l’interesse cinese è passato dallo sviluppo infrastrutturale alla Difesa.

Nel novembre 2021 si sono registrati disordini nella capitale Honiara che hanno colpito aziende cinesi. Tra le principali preoccupazioni dei manifestanti c’era il modo in cui l’influenza della Cina sembrasse orientare le opportunità economiche verso i politici più disposti a seguire gli ordini di Pechino. Il governo non ha mostrato cambi di rotta da allora, anzi. Da quando il primo ministro Manasseh Sogavare ha annunciato di abbracciare la politica di una sola Cina (tagliando quindi i rapporti con Taiwan) il numero di aziende cinesi nel Paese è aumentato.

A settembre, le Isole Salomone hanno rinviato le elezioni nazionali del 2023 dichiarando di avere la capacità di ospitare nello stesso anno sia il voto sia i Giochi del Pacifico (per cui la Cina ha costruito lo stadio). Oltretutto, accogliendo i prestiti cinesi, il governo ha contratto un debito che la Banca Mondiale ha definito insostenibile.

I casi di corruzione sono molti. Documenti ottenuti dal New York Times mostrano come 39 dei 50 parlamentari nazionali abbiano ricevuto nell’agosto 2021, tre mesi prima degli accordi di sicurezza con Pechino, circa 25mila dollari ciascuno da un non meglio specificato “fondo per lo sviluppo nazionale”. Il primo ministro Sogavare ha spiegato che la somma arrivava dall’ambasciata cinese.

E si può proseguire con gli esempi. Lo scorso agosto il premier ha annunciato che la China Harbor Engineering Company costruirà 161 torri cellulari di Huawei, con un prestito dalla Cina di 70 milioni di dollari. Oppure c’è la storia di Peter Kenilorea Jr, parlamentare dell’opposizione, che sostiene che due funzionari governativi abbiano recentemente offerto 2 milioni di dollari a un suo cugino per correre contro di lui.

Gli ultimi politici rimasti a opporsi all’espansionismo cinese sono i capi provinciali. Gli stessi che conducono le proteste di piazza e che sostengono che la popolazione sia stanca di vedere le proprie richieste ignorate dal governo centrale.

Un altro tassello si aggiunge al tema dell’attivismo di Pechino nell’area. Il primo ministro delle Isole Fiji, Sitiveni Rabuka, ha detto giovedì che non c’è motivo di rinnovare un memorandum of understanding tra le Fiji e il governo cinese in materia di sicurezza. Rabuka ha posto enfasi sulla differenza tra i due sistemi e sulle divergenti concezioni della giustizia. Un altro Paese che si sfila dall’abbraccio della Repubblica Popolare.


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