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La de-dollarizzazione del mercato energetico ci dovrebbe preoccupare

Il 2023 potrebbe essere ricordato in futuro come l’anno in cui è nato un nuovo ordine nel mercato energetico globale: sempre di più il renminbi cinese è la valuta di scambio per il petrolio. Lo sforzo di Pechino per scalzare l’egemonia globale statunitense si riflette anche nell’importante settore energetico e nei tentativi di de-dollarizzazione

Il 2023 potrebbe essere ricordato in futuro come l’anno in cui è nato un nuovo ordine nel mercato energetico tra Cina e Medio Oriente. Almeno, questa è l’opinione di Rana Foroohar, editorialista del quotidiano Financial Times. Perché è importante? Perché uno dei muri portanti che compongono l’ordine internazionale dalla seconda guerra mondiale è che le transazioni nel mercato del petrolio avvengano in dollari. Mentre il nuovo ordine vede la sempre più forte presenza del renminbi cinese come valuta di scambio.

Andiamo con ordine. La Repubblica Popolare Cinese è impegnata in uno sforzo per scalzare l’egemonia globale statunitense e questo si riflette anche nell’importante settore energetico. In questo settore, lo sforzo si declina nel tentativo (molto concreto) di de-dollarizzare, ovvero rendere meno dipendenti dal dollaro, diversi grossi Paesi tra cui gli stessi Bric. Questi tentativi erano già esistenti prima dell’invasione russa dell’Ucraina, ma si sono intensificati visto l’uso bellico che si può fare delle riserve estere in dollari.

Nel dicembre 2022, dopo un incontro con il Consiglio di Cooperazione del Golfo Persico (Gcc) il presidente cinese Xi Jinping ha annunciato che nei prossimi tre/cinque anni la Cina non solo aumenterà le importazioni dai Paesi Gcc, ma lavorerà per una “cooperazione energetica ad ampio spettro”. Il che significa potenziali attività esplorative e produttive congiunte in luoghi come il Mar Cinese Meridionale, oltre a investimenti in tutta la catena industriale conseguente: raffinerie, petrolchimica, plastica.

Sarebbe un enorme cambiamento nel mercato globale dell’energia. La Repubblica Popolare ha comprato petrolio sempre di più da Iran, Venezuela e Russia (e altri), che ammontano a circa il 40% delle riserve conosciute. E tutti questi Paesi vendono a Pechino a un prezzo scontato, mentre i Paesi Gcc rappresentano un ulteriore 40% delle riserve accertate. Il restante 20% si trova in regioni all’interno dell’orbita geopolitica russa o cinese.

Chi sostiene che il sistema fondato sul dollaro non verrà eroso fa di solito riferimento allo scarso livello di fiducia di cui gode la Cina rispetto agli Usa e alle minori scorte di liquidità monetaria. Fattori che rendono gli altri Paesi restii a fare affari con valuta cinese. Se questo ragionamento è vero, è altrettanto vero che il mercato del petrolio è dominato da Paesi che hanno oggi molte più affinità con Pechino che con Washington, quantomeno in termini di politiche economiche. Oltretutto, i cinesi stanno creando una rete di sicurezza finanziaria, consentendo la convertibilità in oro del renminbi sui mercati di Shanghai e Hong Kong.

Tutto questo non significa che il renminbi sia un sostituto del dollaro come valuta di riserva. Ma di certo il cosiddetto “petroyuan” assume sempre maggiore importanza e avrà forti implicazioni economiche e finanziarie di cui i politici e gli investitori dovranno tenere conto.

Come ricorda l’analista, la “petropolitica” nasconde anche grossi rischi finanziari. Ad esempio, vale la pena ricordare che il denaro riversato dai Paesi produttori di petrolio nei mercati emergenti come Messico, Brasile, Argentina, Turchia e altri tramite le banche commerciali statunitensi dagli anni Settanta abbia provocato diverse crisi del debito in quei mercati. I “petrodollari” hanno anche accelerato la creazione di modelli speculativi alimentati dal debito degli Usa. Questo perché le banche ricche di liquidità hanno cominciato a creare ogni sorta di soluzione finanziaria e l’afflusso di capitali stranieri ha permesso agli Stati Uniti di mantenere un alto deficit.

Questo trend si potrebbe invertire? Secondo l’analista sì, e una prova sarebbe la diminuzione già in atto di compratori esteri di titoli di Stato statunitensi. Se il “petroyuan” dovesse prendere piede alimenterebbe questo (anti)circolo. Oltretutto, il controllo cinese di riserve energetiche e prodotti derivati potrebbe risultare in un ulteriore fattore di inflazione in Occidente.

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