Affidando a Gerasimov la guerra in Ucraina la posta in gioco per Putin è “alta”, anche nel Paese, spiega l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Usa. In Iran “il problema è il regime e dobbiamo sostenere le persone che cercano di rovesciarlo”. Lo stesso vale per il Venezuela, dice. La nuova strategia giapponese davanti alle minacce di Pechino sia “d’ispirazione anche per gli altri Paesi della regione”
John Bolton ha una lunga carriera nelle amministrazioni americane a guida repubblicana, iniziata con Ronald Reagan e proseguita con tutti i presidenti del Grand Old Party. È stato ambasciatore alle Nazioni Unite con George W. Bush alla Casa Bianca e consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump. Ha raccontato quest’ultima esperienza nel libro “The Room Where It Happened”, la cui uscita nel 2020 fu per mesi ostacolata dall’amministrazione Trump.
In questa intervista esclusiva a Formiche.net affronta i temi più caldi della politica internazionale, dalle proteste in Brasile e in Iran alla guerra in Ucraina fino all’assertività cinese nell’Indo-Pacifico.
Che cosa significa la decisione del presidente russo Vladimir Putin di affidare al suo generale di punta Vladimir Gerasimov il controllo diretto della guerra in Ucraina?
Penso che sia uno sviluppo molto significativo. Non credo che si debba considerare ciò semplicemente come la sostituzione di un generale con un altro, come ho visto dire da alcuni commentatori. Gerasimov è da tempo il capo di Stato maggiore congiunto, lo stesso incarico che ha Mark Milley negli Stati Uniti. Sarebbero come se gli Stati Uniti mettessero lui alla guida della guerra in Ucraina. Lo leggo quindi come un segnale politico da parte di Putin, che mette al comando una persona scelta da lui stesso a capo delle forze armate russe e dice in sostanza che “porteremo a termine” l’operazione. Ciò indica che Putin non ha alcuna flessibilità nel negoziare. Ma penso anche che alzi la posta in gioco per lui. Come si dice nel poker, sta mettendo tutte le sue fiches al centro del tavolo. E ora non può scaricare su altri la responsabilità del fallimento in Ucraina. Questa è la decisione di Putin. Questo è il suo comandante. Si tratta di una mossa con un’alta posta in gioco per Putin, non solo nella guerra in Ucraina, ma anche politicamente in Russia.
Come immagina il futuro della Russia e le future relazioni tra Russia e Occidente?
Dopo quasi un anno di aggressione non provocata, non vedo come l’Occidente possa avere un rapporto produttivo con il regime di Putin al Cremlino. Non so cosa sostituirà il regime di Putin, dal momento che non ci sono strutture né sono elezioni regolari né un politburo del Partito comunista che possa guidare il cambiamento. È un vero e proprio governo autoritario. Molti, sia negli Stati Uniti sia in Europa, pensano di voltare semplicemente pagina e di tornare a come erano le cose prima del 24 febbraio. Ma non credo che questo accadrà.
Pensa che la guerra in Ucraina sia una sveglia per l’Occidente?
Penso che dovrebbe esserlo. Putin ha detto nel 2005, nel suo discorso alla Duma di Stato, che la dissoluzione dell’Unione Sovietica è stata la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo. Poi ha continuato a fare altre dichiarazioni e negli anni successivi, in pratica, ha minacciato di rimettere insieme l’impero russo, non l’Unione Sovietica. E penso che il suo comportamento in diversi Paesi – invadendo la Georgia nel 2008, l’Ucraina per la prima volta nel 2014 e ora nel 2022 – è coerente con l’obiettivo di ricreare l’Impero. E credo che, francamente, non abbiamo prestato abbastanza attenzione a ciò che aveva fatto in passato. Ora ce ne stiamo occupando molto, ma sfortunatamente la conseguenza è un’enorme perdita di vite umane e la distruzione dell’Ucraina.
Il regime di Putin è a rischio?
Non credo che Putin in questo momento sia a rischio di caduta, ma penso che se la situazione militare non dovesse migliorare, soprattutto dopo aver messo Gerasimov a capo delle operazioni, le cose potrebbero cambiare. Non è detto, però, che un governo contrario alla guerra prenda il controllo. Penso che i maggiori critici di Putin, nella Russia di oggi, non siano quelli contrari alla guerra. Ci sono persone che sono a favore della guerra, ma pensano che Putin la stia perdendo.
A proposito di proteste, parliamo di Iran. Crede che il regime iraniano crollerà?
Non credo che si sappia ancora la risposta. Il regime detiene ancora il monopolio della forza, fondamentalmente attraverso l’esercito regolare e le Guardie rivoluzionarie. Ma credo che sia corretto dire che gli ayatollah sono più minacciati oggi che in qualsiasi altro momento dalla rivoluzione islamica del 1979 che li ha portati al potere. Ricordiamo che queste manifestazioni si aggiungono ad anni di enorme malcontento economico, a molte manifestazioni in tutto il Paese, che non molto seguite dalla stampa occidentale ma sono state brutalmente represse da Teheran e nel 2019. Ciononostante, quelle manifestazioni e quel malcontento sono continuati, con l’ultima ondata di proteste che dura ormai da quasi quattro mesi. Molte persone in Occidente definiscono le manifestazioni e la resistenza come una questione sui codici di abbigliamento delle donne. Ma in realtà la questione è molto più seria. Si tratta di una sfida diretta alla legittimità del regime degli ayatollah. È una sfida filosofica, una sfida religiosa, in un certo senso. Non soltanto tra le donne iraniane ma anche tra i giovani uomini il sostegno è schiacciante e credo che questo metta davvero in pericolo il regime.
La mancanza di una leadership nelle proteste potrebbe essere un problema?
Nei primi giorni, in realtà, è stato un vantaggio, perché ha contribuito a dimostrare che queste manifestazioni erano spontanee in tutto il Paese, che non c’era un comando centrale, che si trattava di persone che esprimevano quanto fossero stanche del regime. Eppure, hanno detto cose molto coerenti. Non dicevano più “morte agli Stati Uniti” o “morte a Israele”. Dicevano “morte a Khamenei”, la Guida suprema. Detto questo, se non c’è un coordinamento all’interno dell’Iran, tra le forze di resistenza e, credo, con la diaspora iraniana in Europa e negli Stati Uniti, è molto difficile capire come questo possa continuare. Il fatto è che il regime ha il monopolio della forza. Ha represso il dissenso in passato, lo sta reprimendo ora, giustizia le persone e le imprigiona. Non credo che si sappia con esattezza quante persone siano state uccise o ferite o in prigione. Quindi non se ne andranno facilmente. Penso che il mondo esterno possa fornire attrezzature per le comunicazioni e altre risorse, che sarebbero molto utili alla resistenza. Ma a un certo punto loro stessi devono sviluppare una leadership e un piano. La fine del regime, questo dovrebbe essere l’obiettivo. Non avremo alcuna possibilità di risolvere il problema nucleare, di risolvere il sostegno dell’Iran al terrorismo o qualsiasi altra minaccia in Medio Oriente, finché non avremo un nuovo governo a Teheran.
Come dovrebbe comportarsi l’Occidente con l’attuale situazione in Iran?
Penso che gli Stati Uniti abbiano fatto bene a ritirarsi dall’accordo nucleare del 2015. Penso che sia stato un pessimo accordo che ha fornito all’Iran un percorso verso le armi nucleari. Non ha inibito il loro programma nucleare, ma lo ha facilitato appositamente scongelando 10 miliardi di dollari di beni ed eliminando le sanzioni. Quindi penso che a questo punto, sebbene il presidente Joe Biden abbia cercato per due anni di fare concessioni per rientrare nell’accordo, almeno per ora ciò non accadrà. Ma credo sia importante che anche l’Europa capisca che non è mai stato un buon accordo e che è diventato un accordo peggiore, vista la condotta dell’Iran che ha venduto droni e forse altre armi alla Russia per usarle in Ucraina. Spero quindi che l’Europa si avvicini al punto di vista degli Stati Uniti, secondo cui il problema dell’Iran non è il programma nucleare ma il sostegno al terrorismo e le sue attività maligne con armi convenzionali in Iraq e altrove in Medio Oriente. Il problema è il regime, ed è il regime che dobbiamo combattere. E credo che il modo per farlo sia sostenere le persone che cercano di rovesciarlo.
Come farlo?
Come detto, credo che probabilmente abbiano bisogno di attrezzature per le comunicazioni. Penso che dovremmo parlare con i leader della resistenza all’interno dell’Iran e tra le persone della diaspora in tutto il mondo, e chiedere loro di cosa hanno bisogno. Questa non è una rivoluzione che creeremo dall’esterno. Credo sia abbastanza ovvio che si tratti di una rivoluzione del popolo iraniano. E saranno loro a dover prendere le decisioni strategiche fondamentali. Le comunicazioni sono tra le cose che mi vengono in mente ora, ma la resistenza stessa potrebbe avere delle buone idee. Quindi dobbiamo parlare con loro. Dobbiamo avere un obiettivo politico chiaro per l’Occidente e, come ho detto, penso che dovrebbe essere il rovesciamento del regime. Penso che sia il principale ostacolo alla pace e alla stabilità in Medio Oriente.
Alla luce dei recenti fatti in Brasile e delle attività destabilizzanti di Paesi come la Russia e la Cina, qual è la situazione delle democrazie in America Latina?
Ovviamente l’attenzione è rivolta al Brasile perché i disordini a cui abbiamo assistito visto in televisione sono una copia, purtroppo, di ciò che è accaduto negli Stati Uniti il 6 gennaio 2021, che è stato uno dei giorni peggiori della storia americana, che spero non si ripeterà e non dovrebbe ripetersi in altri Paesi. Le elezioni si possono perdere. Se si hanno prove di frodi si possono presentare nelle sedi appropriate, ottenere un’udienza in tribunale e vedere cosa succede. Ma se si perdono le elezioni, parte della democrazia è accettare di aver perso. Non dovremmo mai dimenticarlo. Nonostante l’attenzione al Brasile, credo che la minaccia nell’emisfero occidentale nel suo complesso provenga da governi, movimenti e Paesi di sinistra, per esempio in Venezuela. Purtroppo, l’opposizione ha dovuto rinunciare al governo alternativo di Juan Guaidó. Il popolo venezuelano sta soffrendo molto sotto il regime di Nicolás Maduro. Eppure non siamo stati in grado di aiutarli. E poi Cuba, Nicaragua e in altri luoghi dell’emisfero come il Messico. Siamo preoccupati per la disgregazione della società civile a causa dei cartelli della droga. In tutta l’America Latina credo che ci siano molte preoccupazioni. Si tratta quindi di un fenomeno che potremmo analizzare Paese per Paese, ma è un modello ciclico in gran parte dell’America Latina. E credo che negli ultimi 5 o 10 anni abbiamo perso molte opportunità per evitare questo fenomeno che ora ci ritroviamo a dover affrontare. E dobbiamo affrontarlo. Credo che il problema principale sia il Venezuela. E penso che se riuscissimo a ripristinare un governo democratico, avrebbe conseguenze in tutto l’emisfero.
Ma dopo il fallimento dell’esperienza di Guaidó, come favorire la democrazia in Venezuela?
Non avrei rinunciato a Guaidó, o al concetto di governo alternativo, che molti altri governi in tutto il mondo hanno riconosciuto. Quello che il regime di Maduro vuole è far negoziare nuove elezioni che poi cercherà di rubare. E la gente dice: ma avremo osservatori internazionali e tutto il resto. Come è già capitato in Venezuela, questo governo non rinuncerà volontariamente al potere. E infatti, anche nell’aprile del 2019, quando l’opposizione è scesa in piazza, ha cercato di rovesciare i militari e aveva un piano per un nuovo governo, sono state le truppe russe e cubane a tenere Maduro a Caracas. Se fosse fuggito a Cuba, come voleva fare, [il piano] avrebbe potuto avere successo. Questa influenza esterna, in particolare in Venezuela, l’aiuto della Russia ai cubani, ma anche la Cina molto presente per molte ragioni, tra cui le riserve di petrolio e gas del Venezuela, rende la situazione molto pericolosa, una vera e propria minaccia per la democrazia nell’emisfero occidentale.
Parlando della Cina e delle sue mire, parliamo di Indo-Pacifico. Che cosa rappresenta il recente incontro tra il presidente statunitense Joe Biden e il primo ministro giapponese Fumio Kishida anche nell’ottica di quello che quest’ultimo definisce “Indo-Pacifico libero e aperto”?
È un incontro molto significativo, che arriva dopo l’annuncio del primo ministro Kishida di raddoppiare il bilancio della difesa giapponese nei prossimi cinque anni per portarlo dall’1% al 2% del prodotto interno lordo, cioè l’obiettivo Nato. E dato che l’economia giapponese è in crescita, si spera che nei prossimi cinque anni il raddoppio sia più che sufficiente per raggiungere il livello del 2%. Di conseguenza, il Giappone avrà il terzo esercito più grande al mondo dopo gli Stati Uniti e la Cina, il che rappresenta un chiaro segnale alla Cina e alla Corea del Nord che il Giappone si rende conto di essere minacciato. Il Giappone ha inoltre annunciato un sostanzioso acquisto di missili da crociera Tomahawk, che hanno una gittata effettiva che potrebbe raggiungere Pechino dal territorio giapponese e coprire l’intera penisola coreana. Si tratta quindi di un riflesso della preoccupazione del Giappone per la belligeranza cinese, per le sue minacce nel Mar Cinese Orientale, per le minacce a Taiwan, ma anche per il suo espansionismo in tutta la periferia nell’Indo-Pacifico. E penso che la gente voglia vedere se, insieme ad altre e nuove cooperazioni in Asia (il Quad con Giappone, India, Australia e gli Stati Uniti, e l’accordo Aukus sui sottomarini tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti), il Giappone sia pronto ad essere ciò che si è discusso in Giappone per 30 anni, ovvero essere una nazione normale – questo è il termine che usano – e una nazione normale può contribuire alla propria autodifesa. Credo che il Giappone abbia raggiunto da tempo questo punto. Le parole di Kishida sono molto incoraggianti. Speriamo che, dopo l’incontro con Biden, questo possa essere d’ispirazione anche per gli altri Paesi della regione.
Esiste spazio per la cooperazione tra Stati Uniti e Cina sulle questioni globali?
Penso che questo dipenda più dai cinesi che da chiunque altro. Se si guarda alla loro strategia a lungo termine, sono loro che stanno cercando di aumentare la loro capacità militare e di condurre una guerra economica contro altre parti del mondo. Tutto questo sta avvenendo su loro impulso. I Paesi della regione stanno reagendo contro di loro, perché sono molto preoccupati da quella che vedono come una strategia cinese per stabilire l’egemonia lungo la loro periferia nell’Indo-Pacifico e poi su base mondiale. E questo coinvolge anche l’Europa, a causa delle strette relazioni economiche che l’Europa e gli Stati Uniti hanno con la Cina. Potrebbe prospettarsi un periodo molto difficile.