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Analisi sociale della rivoluzione iraniana. Scrive Paolo Ceri

Per capire la natura della protesta e del movimento collettivo che la anima vale più guardare alle sue manifestazioni iniziali che alle implicazioni sul piano politico e geopolitico. Beninteso, in un contesto di instabilità la possibilità di un cambio di regime è la principale posta in gioco. Ma per capirne le cause è essenziale guardare alla natura e agli attori della protesta. L’analisi di Paolo Ceri, già ordinario di Sociologia all’Università di Firenze

Proprio perché le autocrazie, quando cadono, quasi sempre cadono di schianto, è difficile capire e prevedere quanto prossimo possa essere in Iran un cambio di regime. È certo invece che gli avvenimenti degli ultimi mesi abbiano segnato la fine morale della repubblica islamica. La ragione è presto detta.

Una crisi morale è tanto più grave quanto maggiore è l’insofferenza a conformarsi alle regole dichiarate e sancite dalle autorità, con il conseguente bisogno di scostarsi dalle regole nei comportamenti quotidiani. Un’insofferenza e un bisogno rivelatisi tanto estesi e profondi da fare dell’Iran contemporaneo un caso di scuola. Estesi poiché una parte crescente e significativa (la più istruita) dei giovani rifiuta e trasgredisce precetti e regole sancite dalle autorità religiose. Profondi perché la trasgressione riguarda disposizioni basilari come il velo obbligatorio, un simbolo che vale come una pietra angolare nell’edificio morale eretto dagli ayatollah a seguito della rivoluzione del 1979.

Livelli così elevati sono il segno di una crisi maturata nel tempo e di cui la protesta suscitata dalla morte Masha Amini – giovane iraniana di famiglia curda picchiata e morta in stato di detenzione – arrestata perché accusata d’indossare scorrettamente il velo, è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Cosicché per capire la natura della protesta e del movimento collettivo che la anima vale più guadare alle sue manifestazioni iniziali che alle implicazioni sul piano politico e geopolitico. Beninteso, in un contesto di instabilità e ridisegno in corso degli equilibri mondiali, la possibilità di un cambio di regime è la principale posta in gioco. Ma per capirne le cause è essenziale guardare alla natura e agli attori della protesta. Sotto questo profilo sono particolarmente significative tre coppie di gesti: 1) tagliarsi ciocche di capelli (tradizionale segno di lutto) e dichiarare forte a voce e online “siamo tutte Amini”; 2) togliersi il velo e far volare il turbante ai mullah; 3) intonare slogan come “donna, vita, libertà” (zan, zandegi, azadi), e come “non vogliamo la Repubblica islamica” (Jomhouri eslami, ne mikhahim, ne mikhahim). I primi due gesti indicano come si sia rapidamente sviluppato, in Iran e anche all’estero, un esteso processo di identificazione collettiva; il secondo paio di gesti è la cifra di un volontarismo sofferto, coraggioso e ironico e perciò liberatorio; la terza coppia di gesti indica con quale forza e portata è inteso e atteso il cambiamento.

Ora ci dobbiamo chiedere: basta un episodio efferato – la morte di una giovane -, basta una repressione violenta a dar conto del senso di quei gesti? È di tutta evidenza che non bastano, come del resto evidenzia la diversità della presente dalle passate proteste, ugualmente represse. Qual è allora la cifra distintiva dell’attuale protesta? È di dare espressione a un movimento culturale – vale a dire né, o comunque prima che, politico, economico o sociale in senso proprio. In ciò la sua potente radicalità (cosa diversa dall’estremismo) e la sua trasversalità di genere e generazionale. Un movimento di natura prettamente culturale: tale cioè da investire un insieme di valori, regole, consuetudini, classificazioni e credenze imposte o consolidate. Ne è prova il carattere iniziale, visibilmente, teatralmente, antiautoritario – hijab bruciati e turbanti che volano – che è proprio dei movimenti culturali modernizzatori.

In secondo luogo ci dobbiamo chiedere perché il contrasto tra la cultura vissuta e la cultura ufficiale si sia approfondito, fino a generare una protesta tanto forte e generalizzata. La principale ragione è che quella attuata dal regime khomeinista è una modernizzazione parziale. Parziale perché l’apertura al mercato, al consumo e alle nuove tecnologie consente in qualche misura al sistema di adattarsi alla globalizzazione, ma non, data la natura del regime politico, agli effetti che l’apertura ha sulle aspirazioni e sui criteri di valutazione, dunque sui modelli di comportamento, vieppiù improntati alla cultura occidentale. L’apertura ai mercati e la diffusione delle tecnologie digitali si traducono in domande e pressioni per l’uguaglianza, specie tra i sessi, nella definizione e assunzione delle posizioni sociali e professionali. Basti pensare che metà dei laureati sono donne: donne che in un regime patriarcale e autoritario vedono le proprie possibilità di espressione e realizzazione compresse e distorte dalla sottomissione all’uomo e dal misconoscimento di sé. Grande influenza ha poi la pratica del consumo che, specie nelle prime fasi, richiede una sorta di trasgressività comportamentale che, pur imitativa, ritualizzata e alienante, genera una tensione con le aspettative di ruolo socialmente definite, specie quelle relative alla donna. Ne deriva che l’assunzione di criteri valutativi esterni (occidentali) induca progressivamente il soggetto a rifiutare in tutto o in parte riferimenti normativi interni.

Accade così che il carattere parziale e contraddittorio dell’apertura alla globalizzazione, unito alla rigidità impositiva delle norme, comprometta l’adattamento sistemico alle dinamiche globali e deprima l’innovazione economica e sociale. Fino a favorire, per dirla con Albert Hirschman, la exit e la voice: finora la exit e ora la voice. L’uscita è in particolare quella, individuale, degli innumerevoli laureati che, formati in qualificate università iraniane, un futuro professionale devono trovarselo all’estero. Ma è un’uscita alla quale si oppone ora la voce collettiva, come quella degli studenti, maschi e femmine uniti nella protesta che, le mani levate, intonano L’inno delle donne, del cantante e attivista Mehdiu Yarrahi, con le parole “Perché viaggiare? Resta e riprendi la tua patria”. La voce si è fatta corale, a comprendere giovani e anziani, studenti e lavoratori, appartenenti a ceti differenti; ma soprattutto a unire donne e uomini nella lotta. Qui sta il principale segno dei tempi, che va al di là dei confini nazionali. Detto con le parole di Nazanin Pouyandeh, pittrice iraniana che lavora in Francia, i giovani uomini “sanno che la loro libertà dipende da quella della donna”.

Sia per la visibilità del e nel mondo esterno assicurata dai nuovi media, sia per le esperienze di vita dei tanti iraniani all’estero, si diffonde l’idea che un altro modo di vita è possibile. Fino ad abbassare nell’opinione di tanti iraniani i limiti dell’accettabile, fino a superare paura e rassegnazione e a tradurre l’indignazione in azione. Com’è avvenuto con la morte di Masha Amini. Per le ragioni dette, lo scontro con le autorità politico-religiose ne è stato l’esito inevitabile. Così come è apparso inevitabile il ricorso a una feroce repressione agli occhi dei vertici di un regime che, sentitosi minacciato, è più avvezzo al bastone che al bastone e la carota.

Il fatto è che l’attuale è una protesta che mette in discussione alla radice due capisaldi: la subordinazione di ogni potere secolare al potere religioso e la sottomissione della donna all’uomo. Infatti, oltre a regole e modelli culturali che definiscono le posizioni sociali e i ruoli di genere, la contestazione investe i rapporti con le istituzioni. Tanto che la condizione necessaria per un regime di libertà in Iran è la separazione tra la sfera religiosa e la sfera civile, cioè la dissociazione tra due poteri, quello dei Mullah e quello dello Stato. È una separazione che implica la fine della teocrazia e un cambiamento di regime. Con le parole di Masih Alinejad, giornalista dissidente iraniana esule negli Usa: “L’hijab è come il muro di Berlino, se cade il velo cade tutto”. La posta in gioco è tale che non giustifica ma spiega la brutalità della repressione, esercitata tramite polizia morale, milizie paramilitari, detenzioni torture, esecuzioni. È tale da far capire perché, per quanto assurdo e disumano sia, alla ciocca tagliata e al turbante volato si reagisca con la truce enormità dell’impiccagione, in più comminata con l’accusa di “guerra contro Dio”. Perduto il carisma e messa a repentaglio la propria autorità, le guide religiose, supreme o meno, provano a convertire la propria paura nella paura seminata tra i propri sudditi. Ma, si sa, la voce di chi deciso protesta recita: “Libertà vo cercando, ch’è si cara come sa chi per lei vita rifiuta”.

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