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L’Italia è un importante attore per la stabilità balcanica. Parla il gen. Morabito

Di Roberto Pagano

“I Balcani continuano a essere un’area molto importante per l’Italia, come dimostra la visita congiunta al di là dell’Adriatico dei ministri Tajani e Crosetto”, spiega il militare, oggi membro del direttorato della Nato Defence College Foundation

La Conferenza di Tirana Ue-Balcani occidentali dello scorso dicembre ha delineato una maggiore fiducia nelle prospettive di stabilizzazione nella regione. Il vertice tra capi di Stato e di governo ha fatto registrare tensioni antiche e recenti dell’area, ma ha indicato anche la volontà di rafforzare le relazioni con Bruxelles in direzione di una proficua integrazione. Un approfondimento sul summit con i sei Paesi balcanici vi è poi stato a Roma con molti esponenti di governo ed esperti, organizzato dalla Nato Defense College Foundation.

Con il generale Giuseppe Morabito, già in Albania come capo di stato maggiore del contingente Kfor (2000 e 2002) e poi vice capo di stato maggiore della missione Sfor in Bosnia-Erzegovina nel 2004, fondatore dell’Institute for Global Security and Defense Affairs (Igsda) e membro nel collegio dei direttori della Nato Defense College Foundation, Formiche.net ha fatto il punto della situazione.

Dalla recente Conferenza Ue-Balcani occidentali sono emersi la necessità di rafforzare la collaborazione e la futura integrazione nell’Unione europea, il sostegno finanziario per le conseguenze della guerra in Ucraina, nuove riforme democratiche da attuare nonostante l’instabilità e le tensioni interne e intra-balcaniche. Ma quale ruolo per l’Italia?

I Balcani continuano a essere un’area molto importante per l’Italia. La dimostrazione è stata la prima visita congiunta al di là dell’Adriatico dei nostri ministri degli Esteri, Antonio Tajani, e della Difesa, Guido Crosetto, in Kosovo e in Serbia e a Tirana il mese scorso. Nel corso della missione hanno interloquito, impegnandosi per un rafforzamento della collaborazione, con i dirigenti sia kosovari sia serbi.

Il nuovo casus belli nella regione è la questione delle targhe automobilistiche?

Ogni volta che c’è una questione tra loro, le posizioni si estremizzano. La vicenda delle targhe non è una questione vitale, ma viene estremizzata da ambedue le parti: i kosovari potevano ben evitare di sollevare questo problema e i serbi di porla come condizione dirimente per proseguire le già complesse relazioni con Pristina. È nella logica delle cose che in un’area già martoriata dalla guerra e dalle tensioni etniche degli ultimi venti anni, ogni questione, spesso ogni minimo evento è occasione per sollevare nuove problematiche e, conseguentemente, nuovi contrasti. Comunque, le barricate stradali posizionate dai serbi sono state poi rimosse in poco tempo. I ministri Crosetto e Tajani hanno incontrato i vertici politici locali facendo comprendere che l’Italia è attualmente pronta a mediare e trovare una soluzione. Inoltre, è da sottolineare che il comando delle forze della Nato in Kosovo, la Kfor che fino a pochi mesi fa era sotto direzione ungherese, è tornato in quella del nostro Paese. Ricordo che in Kosovo sono presenti circa 750 militari italiani e questo conferma che la stabilità della regione è un’importante questione di interesse nazionale. È, quindi, un punto di onore mantenere questo comando Nato da parte italiana e partecipare in prima linea al controllo dell’area.

Una destabilizzazione ulteriore non è auspicabile, ovviamente. E il fatto positivo è che l’Italia è riconosciuta per le sue posizioni equilibrate?

Sì, Roma è considerata un importante attore per la stabilità balcanica. È logico che vi siano delle tensioni tra quei Paesi ex jugoslavi. I kosovari sono schierati con gli Stati Uniti in modo assoluto, hanno contributori dell’area mediorientale del Golfo e asiatica, e la Turchia cerca in ogni modo di influenzare – a mio parere negativamente – il Paese. Peraltro, la regione non è stabile di per sé per le tensioni interne in diversi Stati si reiterano perché la negativa influenza turca ha una sua rilevanza, considerando anche che ad Ankara non vi è propriamente una piena democrazia.

Quanto intensa, come e dove si manifesta l’influenza turca nella regione?

La Turchia è una potenza regionale che ha interessi economici e, soprattutto, “si nasconde dietro il dito” della religione. Può capitare che in Kosovo, per esempio, nel centro di Prizren, il muezzin chiami i fedeli alla preghiera non in albanese-kosovaro o in arabo, ma in lingua turca e pare che anche le grandi aziende che investono nella costruzione delle moschee siano turche. Inoltre, consideriamo che il contingente militare più consistente in Kosovo è quello di Ankara, ma sottolineo che soltanto una minima parte di esso è alla dipendenza del comando Kfor: è quindi stanziato a Pristina in primo luogo per affermare l’interesse nazionale turco. Questo perché la Turchia esercita il suo soft power nei Balcani per i propri interessi nazionali e per sfruttare il denaro investito nella regione, proveniente dalla Unione Europea per la ricostruzione e stabilizzazione. In questo modo, la Turchia cerca di espandere il suo controllo culturale, religioso e anche economico-commerciale attraverso le sue ditte. Ankara riesce così a ottenere un  notevolissimo numero di contratti – o addirittura quasi tutti – per le proprie ditte e società commerciali e accrescendo sempre più la sua influenza nell’area. Attraverso queste, i turchi contribuiscono a organizzare delle città ordinate, senza eccessivo traffico e con buone vie di comunicazione e per Erdogan è motivo di prestigio e nuova influenza.

Quali, in particolare, i Paesi maggiormente interessati dalla presenza di Ankara?

La Macedonia del Nord, l’Albania e, naturalmente, il Kosovo. Qui la penetrazione turca è più facile per la comune o parziale matrice religiosa musulmana. Per esempio, un buon terzo dei cittadini della Macedonia del Nord e la gran parte degli altri due Paesi appartengono a quella fede e cultura. Viaggiando per la Macedonia del Nord può ben accadere che si attraversi un villaggio dove è issata la bandiera albanese e nella moschea il muezzin sia di origine turca.

La Serbia vive, per condizioni storiche e politico-religiose, un equilibrio difficile per le sue relazioni con la Russia. La questione in primo piano per l’Occidente è il conflitto russo-ucraino. Il presidente Aleksandar Vučić è stato recentemente rieletto, ma nonostante le aspirazioni pro-Ue, Belgrado, che alle Nazioni Unite ha votato contro l’aggressione moscovita all’Ucraina, non aderisce alle sanzioni contro Mosca.

La Serbia vive davvero una condizione di travaglio. La fratellanza con la Russia è vissuta più per ragioni religiose che storiche. Il mio personalissimo parere è che non bisogna dare un aut-aut alla Serbia. Non si può chiedere a Belgrado solo vent’anni dopo essere stata bombardata dalle forze Nato che metta tutto da parte e dimentichi quegli eventi e che si schieri integralmente con l’Europa occidentale. A mio parere, qui bisogna operare in modo amichevole e usare tutta la diplomazia possibile.

A parte le responsabilità per il conflitto etnico con i kosovari-schipetari, a Belgrado vi è non solo memoria degli eventi del 1998-99, ma una questione di affermazione di orgoglio nazionale?

Io faccio sempre l’esempio degli Armeni: più di cento anni fa vi furono gli eccidi hamidiani da parte turca, ma ancor oggi in tutte le comunità armene sparse nel mondo vi è una giustificata e comprensibile avversione totale verso la Turchia, peraltro da anni governata con un sistema autocratico e ideologico molto discutibile pur essendo parte della Nato. Allo stesso modo, non si può immaginare che i serbi siano particolarmente e totalmente friendly verso chi li ha combattuti militarmente poco più di vent’anni fa. Inoltre, è da ricordare che Belgrado non riconosce la statualità del Kosovo e rivendica in ogni modo la difesa delle sue comunità locali. Peraltro, la volontà di buone relazioni con l’Occidente c’è: lo scorso 6 dicembre, il presidente Vučić ha partecipato alla Conferenza Ue-Balcani occidentali, mentre sembrava che intendesse disertarla dopo le ultime dure polemiche con Pristina non solo per la questione della sovranità per le targhe automobilistiche.

Quindi quale percorso più coerente per sviluppare le relazioni Ue-Belgrado?

La Serbia è imprescindibile nell’area balcanica e internazionale. È un Paese al centro della regione e bisogna procedere con saggezza, intensificando sempre più i rapporti. Innanzitutto, in direzione di una maggiore integrazione economico-commerciale-culturale con l’Occidente. Ciò creando fiducia e non costringendo Belgrado a dire: “Se siete europei, dovete essere tout court anti-russi”. È importante per tutti e per la stabilizzazione della regione che la Serbia divenga, in futuro, parte di una grande aggregazione come l’Unione europea. Le relazioni commerciali sono molto importanti. Ricordo che la Serbia, ma anche Croazia e Slovenia sono Paesi dinamici e con un sistema economico funzionante e molto meno afflitto dalla corruzione di alcuni stati più a Sud, (l’estremo è rappresentato dalla Bosnia-Erzegovina). L’Italia ha ora un ruolo credibile e anche il nostro presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha incontrato il presidente Vučić, assicurandolo dell’impegno di Roma.

Ha ricordato la Bosnia-Erzegovina. A Sarajevo permane una situazione complessa. Un sistema di governo bi-nazionale sempre precario con varie minoranze, la perdurante discordia politica, un risentimento diffuso tra le comunità etnico-religiose, un equilibrio incerto nella Federazione garantito dalla presenza internazionale. Dagli Accordi di Washington del 1994 ancora non c’è una base minima di concordia. Quale riflessione fare?

È sfortunatamente così. Ma bisogna, comunque, essere lieti che non vi sia un conflitto aperto. Gli attriti, pur continui, quasi permanenti, sono infatti contenuti.
A mio parere, non si giungerà in Bosnia, fortunatamente, a scontri più cruenti. La collaborazione e il sostegno verso le riforme interne da parte Nato e l’aspirazione di Sarajevo all’integrazione europea è un fatto positivo e stabilizzatore.

Per concludere il panorama sulla regione: l’Albania registra, nonostante le tensioni tra i socialisti del premier Edi Rama e l’opposizione Dem, una sorta di tregua interna. Finalmente un’attenuazione della discordia?

L’Albania ha fatto un grande passo in avanti entrando nella Nato nel 2009. È il secondo Paese membro dell’Alleanza a maggioranza musulmana, dopo la Turchia, Anche se con  un piccolo esercito, Tirana ha un ruolo importante e, da allora, siede a un tavolo di democrazia e di stabilizzazione. Il problema albanese è la divisione politica interna e il livello della corruzione. Resta il fatto, poi, che tutto il dibattito pubblico è ancora veramente troppo esacerbato. Si va dalla questione della riforma del sistema giudiziario alle altre vicende che vi si riflettono: dai fratelli kosovari alle relazioni con i Paesi con una presenza albanese. Non dimentichiamo, infatti, la diaspora. Anzi, ricordo che l’economia dell’Albania si sostiene in buona parte con le rimesse dei lavoratori all’estero. Moltissimi di loro tornano anche in patria d’estate e il loro denaro circola nell’economia nazionale. Il problema nuovo e preoccupante per la popolazione residente è il costo della vita, non tanto per l’acquisto dei beni primari, ma per il livello alto, ormai “europeo” di alcuni beni di consumo. Il Presidente Rama governa un Paese a buon livello di informatizzazione, dinamico, ma dove la corruzione non riesce ancora ad essere sconfitta. Sullo sfondo c’è anche la futura adesione di Tirana all’Unione europea, auspicato da quasi la totalità degli albanesi.

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