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La forma del desiderio. Hardware, software e proxy del nostro essere umani

Di Michele Gerace e Giampaolo Ghilardi

La Forma del desiderio è il titolo dell’edizione in corso della Scuola sulla Complessità che dà il nome all’iniziativa organizzata assieme al Centro Studi Americani ed è il filo conduttore degli incontri. Ecco di cosa si è parlato durante il primo incontro

L’intelligenza artificiale, l’internet delle cose, la realtà virtuale, la blockchain, i chip, le così dette tecnologie esponenziali, in generale, la tecnologia, condizionano il nostro essere umani e il modo in cui conviviamo gli uni assieme agli altri nel mondo. Ma non solo. Sono un nostro elemento costitutivo. Di qui potremmo indirizzare le considerazioni lungo almeno due strade: quella delle neuroscienze e della filosofia, e quella geopolitica. Per chiarezza di chi legge, dichiariamo subito che in questo articolo seguiamo una prospettiva neuroscientifica e filosofica, etica e politica, per proseguire in un momento successivo lungo quella geopolitica.

In continuità e progressione rispetto alle precedenti edizioni con il Centro Studi Americani e la Scuola sulla Complessità abbiamo avviato una iniziativa per coinvolgere, in particolare, gli studenti e gli insegnanti, in dialoghi sul viaggio e sulle leggi del nostro essere umani. Sulla natura della costituzione materiale del mondo e sul complesso rapporto tra costituzione fisica, giuridica, materiale, immateriale, e dell’idea stessa di cittadinanza. Ringrazio il Direttore di questa rivista per lo spazio che riserva agli spunti che emergono da ciascun incontro e che condividiamo per aprire ad ulteriori riflessioni.

La Forma del desiderio è il titolo dell’edizione in corso della Scuola sulla Complessità che dà il nome all’iniziativa organizzata assieme al Centro Studi Americani ed è il filo conduttore degli incontri. Ha a che vedere con la proiezione dei nostri desideri nell’altrove e nel difficile (semicitazione in omaggio a Italo Calvino in occasione della celebrazione quest’anno del centenario dalla nascita), capacità per quel che ci è dato sapere, per il momento, unicamente umana. La “forma”, intesa in senso aristotelico, la forma specifica, unica, del nostro essere umani, è associata al “desiderio”, all’essere capaci di desiderare, di immaginare, di avvertire una mancanza alla ricerca della quale volgere le nostre energie fisiche e intellettuali, di darci una direzione.

Gli incontri sono tematizzati su quattro parole chiave: “Natura”, “Meraviglia”, “Conflitto”, “Potere”. In ciascuno di essi, in dialogo con studenti, insegnanti, studiosi e manager, passiamo in rassegna la pluriforme ricchezza di pensiero e l’impatto dell’immaginario tecnologico, visivo, poetico e linguistico, sulla società e sulla cultura a partire dalle due sponde dell’Atlantico.

In questo articolo con Giampaolo Ghilardi partiamo da “Natura”, il primo incontro dell’iniziativa nel quale per dare un’idea del senso e della direzione della nostra natura in rapporto alla tecnologia, abbiamo preso in considerazione i concetti di bisogno e necessità e li abbiamo correlati a quelli di desiderio e libertà, di movimento, di relazione, di esperienza e di memoria, di intenzione, di dominio e di conoscenza. Dalla combinazione di questi insiemi emerge una proprietà che solo superficialmente, lo diciamo meglio, solo artificialmente, è possibile definire distintiva. Ci riferiamo alla distinzione tra naturale e artificiale che è “artificiosa” e lo è dai tempi di Aristotele, da quando con lui avevamo capito che la natura dell’uomo è tale per cui la tecnica non le si giustappone dall’esterno, al contrario la configura dall’interno. È lo stesso Aristotele che, nella discussione con Anassagora, spiega che le mani, lo strumento di tutti gli strumenti, il corpo e le membra che San Paolo richiama ad unità nello spirito nella Lettera ai Corinzi, non sono un possesso, ma parte della nostra identità in quanto ci sono essenziali quanto l’intelletto che le governa.

Per questa ragione è opportuno definire il significato che attribuiamo alla tecnica dalla notte dei tempi, chiarire l’elemento che distingue la tecnologia dalla tecnica e considerare la domanda di fondo sottesa al nostro rapporto con l’ambiente circostante. La prospettiva neuroscientifica e filosofica ci aiuta a comprendere la complessa relazione tra tecnologia e il modo di pensare, l’impatto che la tecnologia e l’immaginario tecnologico possono avere sui desideri e sulla possibilità di spingerci oltre in termini evolutivi.

Un passo indietro per fare a capirci. Prima di Sapiens siamo stati Homini Faber e Habilis, e anche se utilizziamo lo smartphone da poco più di un decennio siamo tecnici da un paio di milioni di anni e tecnologici da qualche centinaio di migliaia. Ma cosa significa che siamo “tecnici”? Fin dal Pleistocene abbiamo iniziato ad utilizzare il fuoco, la pietra, le cose in modo funzionale per questo e quello, a fare esperienza pratica della techne, a sapere come funzionano le cose, a “sapere come” ma non “perché”. Il come delle cose risponde alla tecnica, il perché si sviluppa con il logos, con la parola, la dimensione logica, il ragionamento. La tecnologia (techne più logos) mette insieme l’indagine sul come e quella sul perché. Circostanza che l’intelligenza artificiale rende evidente per difetto dal momento che, più che “intelligenza” in senso stretto, è uno strumento di calcolo potentissimo, non incorporato in senso stretto, che ci può portare a disimparare a fare le cose che fino a un po’ di tempo fa eravamo obbligati a saper fare e che nel tempo potremmo smettere di fare per impiegare tempo ed energie in ragionamenti di ordine superiore. La tecnologia “ben utilizzata” potrebbe portarci a recuperare quanto abbiamo disimparato in capacità di ragionamento di maggiore complessità stimolate da perché sempre più sfidanti.

Quando, invece, si riconosce al corpo la sua dimensione “logica” la sua intelligibilità incorporata, scopriamo in esso una formidabile quantità di intelligenza, “embedded”, per mutuare un vocabolo dall’elettronica. L’intelligenza corporea, dell’hardware, per proseguire con metafora tecnologica, è oggi un’evidenza acquisita non solo dalla medicina, che da secoli ne studia la fisiologia (a partire dalla patologia), ma anche dalla robotica, che pian piano si sta congedando dal paradigma razionalista dell’intelligenza artificiale a favore di un modello più concreto, dove appunto è l’hardware e la sua sensoristica a comandare il movimento delle macchine più avanzate. Ci è voluto un po’ per capire che l’intelligenza artificiale astratta cioè meramente computazionale e “scorporata” non permette il movimento. Dopotutto, è perché ci sono i corpi che è possibile il movimento, non perché vi sono le CPU che computano le possibili traiettorie. Finché si è affrontato il problema del movimento in robotica secondo il paradigma computazionale, non si è mai riusciti veramente a progettare macchine autonome in grado di adattarsi, spostandocisi, nell’ambiente circostante. Predeterminare e calcolare ogni possibile variabile è semplicemente impossibile. D’altra parte, se osserviamo in natura il movimento, poniamo, di un millepiedi, ci accorgiamo che esso non dipende tanto da una incredibile capacità di calcolo, quanto piuttosto dalla sua conformazione somatico-scheletrica. La coordinazione delle molte zampette non procede da un calcolo top-down che dice ad ogni piede come e quando muoversi, ma si conforma all’ambiente per via dei pochi gradi di libertà di cui è dotata ogni articolazione, quando riceve lo stimolo nervoso al movimento. Ripensando a questo modello, all’intelligenza dell’hardware cioè, si è finalmente riusciti a progettare macchine in grado di muoversi efficacemente all’esterno. La chiave è stata trovata nei sensori, che sono proxy dei sensi, più che nell’intelligenza intesa come intelligenza artificiale. Quando poi dal piano del movimento torniamo a quello cognitivo, risulta con evidenza il fatto che anche i software più sofisticati di riconoscimento facciale, di traduzione, di scrittura, solo per fare un esempio, non sanno cosa significano le emozioni che proviamo anche quando riescono ad etichettarle meglio di noi, o cosa stanno traducendo o scrivendo, perché non ne hanno consapevolezza. Per aggiungere un esempio laterale, si pensi all’ambiziosa macchina di Touring progettata affinché si potesse dimostrare la possibilità della macchina di ingannare l’essere umano facendogli credere che nella stanza c’è un umano invece che un robot. Praticamente l’inverso reverso del captcha: ancora oggi la macchina che opera questa computazione non sa che cosa sta facendo.

Il bias razionalistico di memoria cartesiana (ma le sue origini sono molto più antiche) ci ha portati a pensare che l’intelligenza fosse qualcosa di disincarnato, di immateriale, un puro ragionamento che mal sopporta le “imperfezioni” del materico in quanto la perfezione deve risiedere ed esaurirsi in una stringente legge di necessità determinata, predeterminata e predeterminabile di causa ed effetto. Da qui anche una certa preferenza accordata alle discipline matematiche o più facilmente matematizzabili e l’insofferenza verso quelle biologiche, necessariamente imprecise. L’impreciso, ciò che difficilmente risulta modellabile, soffre appunto il difetto di non essere facilmente prevedibile; dunque, libero di non essere altrettanto facilmente preordinabile, computabile, reattivo e non proattivo, controllabile e dominabile. Si capisce molto bene la ragione di questa preferenza, è più trattabile ciò che posso calcolare senza residui; ma ci si dimentica appunto che questa assenza di residuo è il frutto di un’astrazione originaria che ha tagliato la realtà dal proprio corpo, che non tiene conto della libertà nell’accezione più autentica, della volontà e dell’intenzione, del desiderio che sfuggono al mero calcolo perché si proiettano in una dimensione che ogni volta eccede la capacità stessa di pensiero, ripensa se stessa e trascende la realtà.

Il corpo, la materia, la res extensa per dirla con René Descartes, lungi dall’essere il polo contrapposto del pensiero, la res cogitans, presenta un’intelligibilità profonda, tutta tesa a comprendere, prima che dominare, anzi, una volta comprese le leggi a fondamento della sua natura si comprende altresì che imporvi un dominio, un vincolo esterno, è del tutto forviante. Lo stesso Francis Bacon, peraltro non estraneo all’idea di scienza come esercizio di potere, riconobbe che alla natura si comanda obbedendo. La conoscenza dell’intelligenza corporea non solo ci spiega come solo obbedendovi possiamo governare (invece che dominare) i processi fisiologici, ma soprattutto ci permette di ammirare la perfezione delle dinamiche biologiche, rendendo velleitario ed arrogante il pensare di potervi interferire, riplasmandone la natura.

Il nostro corpo – fa notare il neuroscienziato e divulgatore scientifico Antonio Damasio – il sentire attraverso il nostro corpo, il farne esperienza, colorarla con emozioni e sentimenti, e conservarne una memoria, sono alla base della nostra capacità di ragionamento, della coscienza, della creatività e della libertà tipicamente e unicamente umane. La domanda di senso potrebbe essere: abbiamo un corpo o siamo un corpo? Se la risposta fosse abbiamo un corpo che possiamo riparare come un robot fino a che non scegliamo di sostituirlo con un altro hardware e migrarne ricordi, coscienza e creatività, potremmo sostenere che “abbiamo un corpo” ma abbiamo visto come allo stato attuale non è possibile ragionare in questi termini perché viviamo in simbiosi tra anima e corpo. Non abbiamo solo un corpo, siamo il corpo che abbiamo. Siamo il corpo che ci costituisce. Il nostro modo di essere, di pensare, di vivere dipende costitutivamente dal nostro corpo, da come è incarnato in ciascuno di noi, dalle esperienze, dalle emozioni, dai sentimenti che viviamo, dai ricordi che ne conserviamo o che ne rifuggiamo, dal modo in cui li componiamo, scomponiamo e ricomponiamo attraverso lo spazio e il tempo, dalla capacità di immaginazione e desiderio che esprimiamo, dalla mente colorata magistralmente descritta da Pietro Citati che sviluppiamo, e dalla mappatura e base di ragionamento creativo che ne facciamo.

Conoscere per contemplare e rispettare i complessi e mai del tutto svelati misteri della natura, più che per dominarne i processi e volgerli ad un utile di parte, è sempre stato l’ufficio essenziale dell’impegno scientifico, ma è anche la chiave delle possibilità creative dell’essere umano. La creatività ha infatti bisogno di silenzio, il silenzio procede dalla contemplazione, dalla capacità di stupirsi e meravigliarsi di fronte a fenomeni che ci sorpassano quanto a perfezione ed eleganza, e nondimeno sono disponibili ad essere conosciuti. Sorpresa e meraviglia sono le levatrici naturali della creatività umana, che non è ex nihilo evidentemente, procede da ciò che ci precede, ma nondimeno ha un suo legittimo e auspicabile spazio di esercizio quando nasce nel solco del rispetto e dell’ammirazione dell’esistente. Esercizio aumentato nelle possibilità dalla tecnologia che estende la rete di interconnessione e offre immense possibilità laddove queste diventano opportunità di vicinanza, di contatto e di relazione quando sono agite da una intenzionalità specificamente umana. Al contrario, la mera potenza di connessione, privata di intenzione e di relazione, esaurisce nel device tecnologico una falsa sensazione di connessione e di vicinanza, elimina la tensione a conoscere e ad andare oltre, spegne il desiderio, accresce le distanze. La tecnologia accorcia le distanze quando alla crescente possibilità di interconnessione corrisponde l’intenzionalità tutta umana di relazione.

Pretendere invece di riscrivere la natura delle cose, affinché siano allineate ai nostri supposti desideri, disconoscendo l’intima essenza del vivere in relazione, equivale a pensare di conoscere la realtà in modo originario, in modo computazionale, in modo definitivo e assoluto. Fu l’errore dell’idealismo e di diversi -ismi suoi epigoni che, dimenticando la finitezza della nostra natura e l’importanza del vivere gli uni con gli altri nel mondo, ce la presentano come divina, scomunicando ciò che non si adeguasse alle ambizioni della ragione disincarnata: il corpo e l’intenzione, secondo un modello dualistico per cui ciò che fosse materico, la res extensa, sarebbe male, mentre bene sarebbe solo ciò che fosse disincarnato, la res cogitans appunto.

Invero, la natura, la nostra natura di essere umani dal Pleistocene a Aristotele a Immanuel Kant a Jacques Lacan, prima e dopo Cristo, è da principio relazione e creazione. Principio che muove dal desiderare e dalla rappresentazione di una direzione da seguire che spingono all’azione.

Alla radice della parola “natura” c’è il participio futuro di “nascere”, il movimento che si esprime attraverso l’atto originario del nascere, del venire al mondo e del vivere e convivere assieme agli altri. La natura è nascita e divenire, il movimento, la direzione verso un futuro imprevedibile che non possiamo controllare perché, tra necessità e desiderio, siamo quel che siamo, imperfetti e liberi di aspirare a migliorare la nostra condizione, di tenere alta la tensione, alla ricerca dell’altrove e del difficile, nel darci una regola di comportamento, di reciproca convivenza gli uni con gli altri, con le altre specie, con robot e intelligenze artificiali, nel mondo.


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