In questo allucinatorio gioco degli specchi la musica commerciale diventa il documento perfetto per capire la società. Cosa c’entrano, allora, quei ragazzi romani che si stanno godendo la popolarità online che oggi si traduce automaticamente in danaro? C’entrano come quei pittori che, tra il cinque e il seicento, in mancanza di ispirazione e di idee originali, copiavano Michelangelo o Raffaello
Tommasino, il nipote di Luca, nonno ormai dedito autisticamente solo alla costruzione del presepe, a un certo punto si sente rivolgere dall’avo la domanda chiave del “Natale in casa Cupiello”: “Ti piace o’ presepe?”. E a Tommasino il presepe non gli piace per niente. È un’eresia, uno strappo che non si sana, un affronto. Crolla un mondo, fragile, fatto di ipocrisie piccolo borghesi, nella Napoli del 1931.
Chiamo a prestito l’immenso Eduardo per fare a me stesso la domanda: “Ti piace u’ Maneskin?”. E mi permetto di emulare Tommasino: “A me u’ Maneskin non mi piace”. Prima di rispondermi mentalmente in modo inadeguato e probabilmente non riportabile in rete, seguite le prossime righe per comprendere le mie ragioni. Premetto che avrei molto apprezzato questi ragazzi quando erano musicisti di strada, come professionisti delle cover famose del rock anni ’80/’90, che pure hanno praticato e accolto come struttura portante del genere musicale che li identifica.
Mi riesce, però, un poco difficile partecipare all’estenuante rosario di alleluja che i media nazionali, specie la tv di Stato, allestiscono attorno a questa band che appare un prodotto riuscitissimo, questo sì, di un ruffiano professionista della comunicazione (digitale), i cui contenuti, però, sono assolutamente conformi allo standard di quel che circola oggi in rete, non un pelo in più né in meno. E non si tratta di capolavori. È evidente che la struttura musicale del pezzo (la cosa migliore sentita da loro è ancora una cover, stavolta di un gruppo di rock-blues, i Four Season, Beggin’, che risale al 1967, e poi venne riproposto dagli Shocking Blue nel 1974) è spesso un’accessorio della clip che viene consumata su YouTube o Spotify.
Gradevole accessorio, nel caso di specie, con insistita esposizione di corpi e monumentale allestimento trash, non c’è che dire, come nell’ultimo video che accompagna la promozione dell’album appena uscito, “Rush!” Ma, vivaddio, ragazzi, paillettes, fluidità, scenografie esagerate, ambiguità e dosi massicce di sesso sono un frusto dejavù: l’ abbiamo conosciuto con debordante profusione di ingredienti cinquant’anni e passa fa. Si chiamava nientedimeno che Iggy Pop, David Bowie, Velvet Underground (questi con tanto di copertina del vinile – e coabitazione nella farm – di un tipo dal nome Andy Warhol) e Lou Reed, tanto per citare.
Lou Reed entrava in scena più nudo che vestito, ma era uno che cantava Walk on the wild side: eravamo nel ’72 del secolo scorso, 51 anni fa, giusti giusti. E, se proprio vogliamo trovare un progenitore della provocazione e dell’erotismo mefistofelico e pluriverso (ma solo per fare scena, perchè ancora oggi, a 80 anni suonati corre dietro alle ragazze), cari Maneskin, ce l’avevate a Los Angeles e gli facevate da buttadentro: si chiama Mick Jagger. Non apriamo il libro dei testi e contesti di quella musica, che fece da colonna sonora a giovani generazioni alla ricerca di un posto nella società pensata per adulti consumatori e conformisti. Ricordiamo solo che la musica – sì, anche le canzonette – ha a che fare con la politica, nel senso del rispecchiamento di una cultura, di una società, di un sentimento prevalente tra la gente.
E c’è, alla fine, una chiara eco tra povertà culturale (e politica) e prodotti musicali. In questo allucinatorio gioco degli specchi la musica commerciale diventa il documento perfetto per capire la società. Cosa c’entrano, allora, quei ragazzi romani che si stanno godendo la popolarità online che oggi si traduce automaticamente in danaro? C’entrano come quei pittori che, tra il cinque e il seicento, in mancanza di ispirazione e di idee originali, copiavano Michelangelo o Raffaello. Magari le tecniche erano anche buone, ma l’assenza del guizzo ne toglieva spesso il valore di gesto artistico. Anzi: spesso diventavano innaturali, goffi e artificiosi.
Come questo tempo della politica, appunto, che sta a galla tra vuoto e manierismo.