Un tono positivo nelle voci dei presidenti della Federal Reserve porterebbe a significativi aumenti dei prezzi delle azioni. Anche altre variabili finanziarie rispondono ai segnali vocali dei componenti dell’autorità monetaria americana. Il corsivo di Giuseppe Pennisi
Il 2 di febbraio si riunisce il Consiglio della Banca centrale europea (Bce), riunione particolarmente importante perché darà il tono alla politica monetaria europea se non per il resto dell’anno, almeno per i prossimi sei mesi quando l’Unione europea (Ue), ed il resto del mondo, dovranno fare scelte difficili in materia di quali strumenti utilizzare in un contesto in cui tensioni inflazionistiche (in gran misura da costi piuttosto che da domanda), saranno presenti insieme a pressioni recessive (dovute quasi interamente alle implicazioni della guerra scatenata dalla Federazione Russa nei confronti dell’Ucraina).
Molti dati sul contesto in cui si tiene la riunione del 2 febbraio sono noti e sono analizzati su questa testata: a ragione anche del mutamento di alleanze tra i suoi componenti (ed i Paesi e le autorità monetarie nazionali che essi esprimono), la Bce sta abbandonando la politica monetaria espansiva (per sorreggere la domanda) che la ha caratterizzata nei momenti più bui della pandemia e nella prima fase dell’aggressione russa all’Ucraina; l’inflazione (riapparsa in modo prepotente in Europa e negli Usa) spinge le autorità monetarie a maggiore cautela; l’Italia che è stato il maggior beneficiario sia della politica espansiva sia delle misure speciali di acquisto (e di accantonamento) da parte della Bce di titoli di Stato potrebbe trovarsi in difficoltà di fronte a questo cambio di passo che probabilmente verrà contrassegnato da un nuovo aumento dei tassi d’interesse.
C’è un aspetto, però, poco noto. È oggetto di un saggio di Yuriy Gorodnichenko, Tho Pham e Oleksandr Talavera sull’ultimo numero dell’American Economic Review, giunto a numerosi abbonati e soci dell’American Economic Association ma ancora non facilmente trovabile in libreria. The saggio, intitolato The Voice of Monetary Policy (La voce della politica monetaria), propone un modello di deep learning per rilevare le emozioni incorporate nelle conferenze stampa dopo le riunioni del Federal Open Market Committee ed esaminare l’influenza delle emozioni rilevate sui mercati finanziari.
Dopo aver controllato le azioni della Federal Reserve e il sentiment, il lavoro conclude che un tono positivo nelle voci dei presidenti della Federal Reserve porti a significativi aumenti dei prezzi delle azioni. Anche altre variabili finanziarie rispondono ai segnali vocali dei componenti dell’autorità monetaria americana. Quindi, il modo in cui vengono comunicati i messaggi politici può muovere il mercato finanziario. I risultati del modello forniscono implicazioni per migliorare l’efficacia delle comunicazioni delle banche centrali.
È un aspetto importante perché nell’ultima seduta, se non nelle ultime sessioni, del Consiglio della Bce, comunicazioni non chiare, ove non addirittura ambigue della Presidente dell’istituto, Christine Lagarde, hanno portato quanto meno ad equivoci e malintesi. Non credo esista uno studio del modo in cui parla la politica monetaria europea analogo a quello di Yuriy Gorodnichenko, Tho Pham e Oleksandr Talavera per la politica monetaria americana. Dato che la fase di incertezza è destinata a durare a lungo, potrebbe essere la stessa Bce a farlo tramite il suo servizio studi od a commissionarlo ad università dell’eurozona.
Non si tratta di un problema solo di comunicazione. In un’area (quella dell’euro), in cui non esiste una politica di bilancio comune con frecce adeguate al proprio arco, non sono state ancora poste le premesse per un mercato dei capitali comune, l’unione bancaria è incompleta, la Bce diventa l’unico oggetto di lodi e di critiche. Si finisce, quindi, per dare importanza forse eccessiva alla sue decisioni (ed anche alle parole di suoi massimi dirigenti).