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Si fa presto a dire presidenzialismo (sarà un cadeau per gli influencer)

Non è solo questione di cabala, scaramanzia, tradizione negativa. A suggerire di soprassedere sul presidenzialismo provvede anche un’altra valutazione: la materia dei poteri è così delicata e complicata, che, oggi, neppure un redivivo Montesquieu (1689-1755) riuscirebbe a venirne a capo

Se ci trovassimo al volante del Paese, al posto di Giorgia Meloni, ci guarderemmo bene dalla tentazione (fatale) di spingere sull’acceleratore per raggiungere l’agognata meta del presidenzialismo o del semipresidenzialismo. Non foss’altro perché, finora, tutti i tentativi di Grande Riforma non hanno mai giovato alla fortuna dei loro artefici. Persino Alcide De Gasperi (1881-1954), che pure si era limitato a proporre una legge che trasformava una maggioranza assoluta, scaturita dalle elezioni, in una maggioranza parlamentare dei due terzi, si ritrovò battuto e spiazzato. E la sua proposta, ricordiamolo, non aveva nulla di trascendentale: mirava a rafforzare un esecutivo che, grazie alla maggioranza numerica, sarebbe stato già robusto di suo. Ad altri successivi aspiranti riformatori andò ancora peggio, ultimo in ordine di tempo l’ex rottamatore Matteo Renzi.

Anche oltre frontiera, le grandi riforme hanno provocato più autogol di quelli che realizzava il mitico Comunardo Niccolai, difensore del Cagliari e della Nazionale, passato alla storia calcistica per la sua sfortunata propensione a invertire le due porte sul terreno di gioco. Il generale Charles De Gaulle (1890-1970), di sicuro non un pivellino, scivolò proprio su qualcosa di simile, quando era il padrone della Francia: si era messo in testa di riformare (depotenziare) il Senato, ma il popolo gli rispose “no, grazie”.

La causa degli insuccessi di tutti i grandi riformatori è semplice, non ha bisogno di raffinati esegeti. Ogni conato di Grande Riforma fa da lievito alla coalizione di tutti gli oppositori e di tutti i rivali del suo autore. E siccome avversari e critici, anche se divisi tra loro su tutto il resto, sono sempre, da alleati pur momentanei, numericamente più forti del leader che intende cambiare le regole del gioco, anche un bambino comprenderebbe che lanciarsi nella sfida di modificare l’assetto costituzionale di uno stato equivale a mettersi in viaggio di notte su un’auto a fari spenti. Di conseguenza, nei panni dell’attuale presidente del Consiglio toccheremmo ferro prima di avventurarci verso l’obiettivo dell’elezione diretta del capo dello stato. Anzi, rimanderemmo l’operazione a babbo morto, utilizzandola tutt’al più come strumento di marketing elettorale.

Ma non è solo questione di cabala, scaramanzia, tradizione negativa. A suggerire di soprassedere sul presidenzialismo provvede anche un’altra valutazione: la materia dei poteri è così delicata e complicata, che, oggi, neppure un redivivo Montesquieu (1689-1755) riuscirebbe a venirne a capo. Già il sistema americano, che la vulgata più diffusa giudica la quintessenza del presidenzialismo, in realtà, è solo la risultante di un felice bilanciamento di pesi e contrappesi tra poteri. Peraltro, riesce difficile etichettare come presidenzialismo puro un ordinamento che non consegna la Casa Bianca al candidato più votato dall’elettorato dell’Unione, ma al candidato più suffragato dai voti elettorali dei singoli 50 stati. Il che, come si sa, a volte provoca effetti paradossali, vedi la beffa patita da Hillary Clinton, che pur avendo, nel 2016, distanziato Donald Trump di oltre 3 milioni di voti, si vide soffiare la dimora più importante del pianeta dal più discusso tra i magnati in circolazione, baciato dalla combinazione-ripartizione dei delegati espressi dagli stati.

Andiamo avanti. Il presidenzialismo si addice agli stati a bassa temperatura (passionalità) politica, ossia agli stati dove è radicata da tempo la legittimazione reciproca tra gli schieramenti in campo. L’Italia rientra nell’elenco di questi Paesi? Non proprio. I decibel dello scontro politico sono assordanti nella Penisola. Del resto, se persino negli Stati Uniti, il riconoscimento vicendevole tra gli sfidanti al vertice non è più una certezza, figuriamoci cosa accadrebbe in una nazione, come la nostra, dove il modello irriducibile guelfi-ghibellini è così capillare che investe anche il più piccolo condominio abitativo.  Il rischio, per l’Italia, di ritrovarsi in Sudamerica anziché in Nordamerica, qualora sposasse il sistema presidenziale, sarebbe più concreto del panettone sulle tavolate natalizie.

Ma non è finita. L’irruzione di Internet sul palcoscenico della politica si è rivelato così impetuoso da mettere in pericolo, secondo parecchi politologi, la sopravvivenza stessa della democrazia (il cui appeal è in declino nel mondo). Probabilmente queste preoccupazioni sono leggermente esagerate, ma il direttismo e l’eclissi delle istituzioni intermedie non sono né un indizio né una garanzia di buona salute per i sistemi liberali. Molto più rassicurante sarebbe cercare di favorire la stabilità dei governi attraverso correttivi graduali (ad esempio: sfiducia costruttiva, inemendabilità della legge di bilancio e ricorso al voto anticipato in caso di bocciatura, prevalenza effettiva del premier nei confronti dei ministri, rafforzamento dello stato centrale rispetto alle regioni…) all’interno di un ordinamento parlamentare, anziché esplorare l’ignoto esagitando gli animi, scatenando le pulsioni più estreme, alimentando la tentazione del potere per il potere, che poi sarebbe la tentazione dello strapotere: tutti pericoli (più) connaturati all’esperienza presidenzialistica, come dimostra la storia in diversi angoli del globo (la stessa liberaldemocratica Francia avrebbe sudato freddo se avesse prevalso l’estremista Marine Le Pen nell’ultima contesa con Macron).

Ma l’effetto Internet e l’esplosione dei social network che, oltre a concimare una variopinta foresta di populismi, stanno esautorando le istituzioni canoniche previste dalle Costituzioni, non si limitano a modificare il rapporto tra eletti ed elettori. Di fatto stanno cambiando, sul piano della comunicazione e rappresentanza politica, i relativi connotati di domanda e offerta. L’influenza degli influencer (scusate la ridondanza) è sempre più marcata nella vita individuale e collettiva. Di conseguenza l’approdo degli influencer sul proscenio politico è roba da futuro prossimo, non remoto. Così come la regia delle grandi multinazionali del web dietro gli influencer superstar sta nell’ordine delle cose, oltre che nelle previsioni dei più svegli. Non sarà, quella testé abbozzata, un’inquietante prospettiva orwelliana, ma non sarà neppure una rasserenante maturazione montesquieuiana.

Attenzione, perciò, a (non) confezionare questo insidioso pacco regalo (il presidenzialismo): potrebbe trasformarsi in un beneficio esclusivo per chi sta alla politica come la volpe sta al pollaio. Qui è in ballo l’avvenire di tutti.  Buon anno.



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