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La vera eredità di Ratzinger e il futuro della Chiesa. Scrive Giovagnoli

Qual è per il papa e per la Chiesa nel suo insieme, il modo migliore per affrontare la crisi del cristianesimo in Occidente? È legittimo avere opinioni diverse a proposito. Personalmente credo che aiuti la presenza di un papa capace di trasmettere forza e coraggio. E le sue “dimissioni” mostrano che anche Ratzinger la pensava così

La morte di una grande figura – e Joseph Ratzinger lo è stato certamente – costituisce generalmente l’inizio di una riflessione d’insieme sul suo pensiero, la sua opera, la sua vita, impossibile quando un’esistenza non si è ancora definitivamente conclusa.

Il “dopo Ratzinger” dovrebbe avere soprattutto l’obiettivo di mettere a fuoco il suo posto nella storia della Chiesa e la sua eredità per i posteri. Invece, finora, il dopo Ratzinger è stato soprattutto un’altra cosa: un’operazione politico-mediatica per utilizzare strumentalmente il papa morto contro il papa vivo, Benedetto XVI contro Francesco.

Ne è protagonista una piccola ma agguerrita pattuglia giornalistica che ha lanciato la tesi secondo cui la morte del papa emerito sarà un duro colpo per il papa regnante: non più protetto dal profondo “sensus ecclesiae” di Benedetto XVI, Francesco sarà travolto da una polarizzazione che sconvolgerà la Chiesa cattolica. Ma è un fragile schermo: chi lancia queste previsioni, ne alimenta le possibilità di autoavveramento.

L’arma principale – forse non del tutto consapevole – è costituita da Georg Gaenswein, segretario di Joseph Ratzinger, l’uscita delle cui memorie è tempestivamente programmata per il 12 gennaio, con anticipazioni snocciolate giorno dopo giorno secondo un copione (anche commerciale) ampiamente collaudato. Ma non sembra un’operazione destinata ad andare molto lontano.

In tanti – e di tendenze diverse – hanno osservato che Benedetto XVI non sarebbe stato d’accordo con gli attacchi di padre Georg a Francesco, quelli che gli sono veramente amici gli hanno consigliato di tacere. Come ha scritto Giuliano Ferrara, nessuno con la testa sulle spalle ha oggi interesse ad alimentare le polarizzazioni nella Chiesa cattolica o addirittura uno scisma, men che meno se è un ecclesiastico con qualche responsabilità. Persino mons. Timothy Broglio, considerato un conservatore e presidente di un episcopato statunitense distante da Francesco, ha preso le distanze.

È più importante oggi interrogarsi sull’eredità di Ratzinger. Lo ha fatto anzitutto lo stesso Francesco nell’omelia – poco compresa – per i funerali del papa emerito, citando lo stesso Ratzinger: il “pastore non può portare da solo quello che, in realtà, mai potrebbe sostenere da solo e, perciò, sa abbandonarsi alla preghiera e alla cura del popolo che gli è stato affidato”. Dopo un’inflazione di parole – per lo più sbagliate, nel migliore dei casi ovvie – su “due papi”, le differenze delle loro personalità, la discontinuità dei loro pontificati ecc., Francesco ha ricordato una realtà evidente: non c’è pastore senza gregge, non c’è papa senza popolo.

Di Benedetto XVI ciò che più oggi interessa sono il suo rapporto con la Chiesa e le sue idee sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Benedetto XVI ha avuto opinioni conservatrici sotto il profilo sociale e politico: per lui il Sessantotto ha costituito un trauma e le conseguenze della contestazione sono state (sebbene non del tutto) negative. Ma non basta per definirlo conservatore sotto il profilo ecclesiale: è sempre rimasto fedele al Concilio Vaticano II, malgrado problemi e incidenti ha cercato sinceramente il dialogo con ebrei e musulmani, ha respinto l’equazione Cristianesimo=Occidente e ha assunto tutte le diverse civiltà come destinatarie del Vangelo (molto importante è stato il suo ruolo nel dialogo con la Cina).

E poi: come definire conservatore un papa che ha compiuto un gesto unanimemente giudicato “rivoluzionario” come la rinuncia al ministero (impropriamente chiamata dimissioni)?

Certo, Benedetto XVI ha denunciato insistentemente una crisi della Chiesa. Alcuni suoi discorsi su questo tema sono stati molto tristi, con toni a tratti pessimisti. Ma non è mai venuta meno la sua fede nel futuro della Chiesa, convinto che sia nelle mani del Signore. Chi crede nel Vangelo è sempre aperto al futuro e “pronto a rendere conto della speranza” che è in lui (alla speranza il papa emerito ha dedicato un’enciclica). La sua stessa rinuncia è stato un grande atto di fiducia nel futuro della Chiesa. C’è di più: tutto il vasto magistero di questo papa teologo mostra la sua convinzione profonda che si può e si deve continuare a parlare anche a un Occidente che si sta allontanando dalla Chiesa. Magari criticando e correggendo. Indubbiamente, è possibile sostenere che i risultati ottenuti non siano stati esaltanti. Ma il suo pontificato – purtroppo – non costituisce un caso isolato: la crisi della Chiesa in Occidente viene da lontano e probabilmente continuerà nel prossimo futuro.

Ecco perciò l’importanza della domanda: qual è per il papa con il suo popolo, insomma per la Chiesa nel suo insieme, il modo migliore per affrontare la crisi del cristianesimo in Occidente? È legittimo avere opinioni diverse a proposito. Personalmente credo che aiuti la presenza di un papa capace di trasmettere forza e coraggio. E le sue “dimissioni” mostrano che anche Ratzinger la pensava così.

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