La continuità è un tratto che distingue l’azione dei cattolici in politica. Quando il 18 gennaio del 1994 si “chiude” la Dc e si rifonda il Ppi, l’idea di una esperienza che continua e si rinnova emerge con tutta la forza possibile. Appunti in occasione dell’anniversario della fondazione del Partito popolare ad opera di Luigi Sturzo (18-19 gennaio 1919)
Finita la Grande guerra, l’Italia della Vittoria iniziava presto a misurare la distanza tra sentimenti di palingenesi sociale e insufficienze delle istituzioni, con grave disagio dei ceti popolari. Tra l’armistizio con l’Impero Austro-Ungarico (novembre 1918) e l’apertura della Conferenza di pace di Parigi (gennaio 1919) il Paese visse in uno stato di generale eccitazione. I liberali, rimasti al potere, non seppero dare risposta a questo moto collettivo di speranza e insieme d’inquietudine. Si deteriorò in poco tempo il mito della “guerra vinta” e inziò la scomposizione del vecchio blocco di potere, fino alle tormentate vicende che aprirono le porte all’avvento del fascismo nell’ottobre del 1922.
Luigi Sturzo colse con lucidità l’elemento rivoluzionario che contrassegnava, all’indomani dell’armistizio, il passaggio ad un nuovo assetto dell’Europa e del mondo. Per capire fino in fondo la genesi del Partito popolare occorre riflettere sulla conferenza da lui tenuta proprio a novembre del 1918, quando l’entusiasmo a tutti i livelli impediva di guardare ai grandi problemi emergenti dalla guerra. In quella sede, Sturzo richiamò l’attenzione sulla definitiva chiusura di un ciclo storico, iniziato con la Rivoluzione francese, e mise l’accento sulle prospettive dell’avvenire democratico dell’Italia.
Ecco, allora, che l’appello “ai liberi e forti” del 18-19 gennaio 1919 si configura come un intreccio virtuoso di passato e futuro: da un lato eredita e riassume le ragioni di una lunga traversata nel deserto, con l’astensione polemica dei cattolici dalla vita politica nazionale (Non expedit) a causa della “ferita” di Porta Pia; dall’altro, invece, prefigura uno scenario di profondo cambiamento, con l’ingresso a pieno titolo dei partiti popolari – tra cui, appunto, il partito dei cattolici democratici (non conservatori) – nella vita politico parlamentare, nonché il necessario e conseguente ricambio di classe dirigente.
A Sturzo spetta il merito di questa sintesi propulsiva, in sostanza unificante la tradizione con il progresso, di cui si avrà pienezza di riscontro successivamente nella esperienza della Dc proposta da De Gasperi all’indomani della seconda guerra mondiale. Anche lui, pensando con originalità a un partito di centro “in cammino verso sinistra”, elabora una visione aperta del cattolicesimo politico, senza rinunciare alla forza dell’identità. Partito di governo più che di testimonianza, la Dc è “nuova” rispetto al Ppi, ma continua ad operare nel solco tracciato da Sturzo.
La continuità è un tratto che distingue l’azione dei cattolici in politica. Quando il 18 gennaio del 1994 si “chiude” la Dc e si rifonda il Ppi, l’idea di una esperienza che continua e si rinnova emerge con tutta la forza possibile. Sergio Mattarella, allora direttore de Il Popolo, scriverà quel giorno un editoriale per dire che la Dc “chiude formalmente la propria storia perché possa continuare una storia più ampia”. Si ritorna a Sturzo senza timore di andare, per così dire, anche oltre Sturzo.
Questo modo di pensare e di agire resta nella memoria collettiva del mondo cattolico democratico e popolare. Poco importa, al limite, se oggi tale concetto di continuità, inteso nel suo dinamismo, sconta il limite di un oscuramento che il rifiuto del “partito identitario” ha reso pressoché indiscutibile. Sta di fatto che l’Italia di oggi, con l’avvento al potere di una destra fortemente identitaria, registra semmai la fine del “partito pluridenitario”, come dimostra in parallelo la crisi del Pd e di Forza Italia.
Che può accadere, dunque, alla dispersa compagine dei popolari? Nulla indica che si ritorni alla vecchia forma partito, ma nulla vieta di pensare, anche alla luce delle ultime esternazioni, che una certa consapevolezza dell’essere necessari a se stessi, prima che ad altri, porti a declinare un nuovo modo di ragionare sul futuro del popolarismo, in continuità con la lezione di Luigi Sturzo.