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Supercoppa d’Arabia. Perché Europa e grandi investitori hanno bisogno l’uno dell’altro

Di Alessio Postiglione

Se il calcio è sempre stato strumento di soft power per tutti, per i Paesi del Golfo rappresenta qualcosa di più. Un tassello dello “state building”. Ecco perché ha poco senso la critica avverso la mancanza di tradizione calcistica. Alessio Postiglione, autore di “Calcio e geopolitica” racconta come si muovono le democrazie e le democrature nel mondo dello sport

La Supercoppa ‘d’Arabia’ vinta dall’Inter ha, come previsto, innescato una serie di polemiche, che seguono quelle per il Mondiale in Qatar. Il tenore delle critiche è molto ampio. Si va dal calcio di campanile venduto al capitale internazionale, alle credenziali democratiche di Paesi che utilizzerebbero lo sport più amato di tutti per rifarsi una reputazione, il cosiddetto sport washing.

La verità è che il calcio e lo sport professionistico sono ampiamente integrati all’interno delle logiche economiche e politiche da tempo; i protagonisti dell’arena internazionale non sono solo, ovviamente, democrazie liberali; e, forse prevedibilmente, ad oggi le accuse di corruzione per l’assegnazione dei Mondiali Fifa di Qatar e Russia hanno accertato le responsabilità del delegato statunitense, Chuck Blazer, mentre quelle del Qatar sono ancora al vaglio degli inquirenti. Al di là della dimensione giudiziaria, anche il calcio è il campo delle guerre non convenzionali e senza limiti che combattono le grandi potenze.

Un campo in cui si trovano molto a più loro agio le democrature, non abituate a rendere conto in modo trasparente delle proprie scelte. Il calcio, infine, è uno strumento di soft power, come l’industria culturale, ma che si presta ad un profittevole scambio fra titolari del brand e investitori e pubblico di riferimento. I primi sono gli europei; i secondi le grandi potenze. Gli europei hanno bisogno dei denari dei secondi, in un rapporto hegeliano che rafforza sia il nuovo Paese che rileva il club, sia gli europei che promuovono all’estero il “Made in” di una determinata economia.
È quello che hanno fatto in questi anni gli americani, esportando le loro leghe all’estero: bisognosi di capitali e di nuovi pubblici. Un esempio che l’Italia segue con la Supercoppa, sulla scia di quanto fatto dalla Premier League, capace di attrarre i capitali dei player geopolitici più importanti.

Più della metà delle squadre presenti nella Top 20 del report Deloitte Football Money League è infatti inglese. Squadre con una struttura societaria internazionale, capaci di abbracciare dai media agli e-sport. Come il Liverpool, del gruppo Fenway, proprietario della squadra della Major League Baseball (MLB) Boston Red Sox; il Manchester United dei Glazer, proprietari della squadra di football americano Tampa Bay Buccaneers; l’Arsenal della Kroenke Sports Enterprises, che raggruppa diverse squadre professionistiche di basket, football americano e baseball; l’Aston Villa, del miliardario statunitense Wesley Edens; il Chelsea, che con l’abbandono del magnate russo Abramovich, a seguito della guerra in Ucraina, è ora di proprietà di un consorzio guidato dall’investitore Todd Boehly, che è anche comproprietario dei Los Angeles Dodgers.

La sfera angloamericana si contrappone a quella islamica. Gli Emirati, con il controllo del Manchester City, in holding con i cinesi, sponsorizzati da Etihad dell’emiro Khalifa bin Zayed Al Nahayan, e dell’Arsenal, di proprietà del CEO di Emirates, Ahmed bin Saeed Al Maktoum; l’Arabia Saudita, che oggi è presente nella Premier con la proprietà del Newcastle Utd e dello Sheffield Utd, la cui operazione più importante è sicuramente l’annuncio del passaggio delle celebrity planetaria Cristiano Ronaldo all’Al-Nassr di Riad. Il mondo sunnita-salafita si contrappone, poi, al Qatar, proprietario del Paris Saint-Germain. Lo scacchiere continua con cinesi, russi, per limitarsi alle grandi potenze.

Lo Shakhtar di Donetsk è stata la squadra del Donbass filorusso, fin quando il magnate e finanziatore del Partito delle Regioni, Rinat Akhmetov, amico dell’ex presidente filo-Mosca Yanukovich, non si è ricollocato contro Putin, a seguito dei danni subito alla sua, celebre, acciaieria, quella di Azovstal. I cinesi, poi, li conosciamo bene in Italia. Puntano ad organizzare e vincere i Mondiali del 2050. Nel frattempo, con gli investimenti strategici della “stadium diplomacy” – il Lusail Stadium, palcoscenico della finale tra Francia e Argentina, è stato costruito con un costo dichiarato di 767 milioni di dollari dalla China Railway Construction Corporation in collaborazione con il gruppo edilizio HBK del Qatar -, attraggono a sé nuovi Paesi. Lo fanno con il calcio e lungo la loro via della seta, la Belt and Road Initiative (Bri).

Appena il Costa Rica ha interrotto i legami diplomatici con Taiwan e ha riconosciuto ufficialmente la Repubblica popolare cinese, Pechino ha negoziato un accordo di libero scambio che ha portato al finanziamento del Costa Rica National Stadium, inaugurato nel 2011, con un costo approssimativo di 100 milioni di dollari. Proprio come nella “trappola del debito” innescata dalle infrastrutture della Bri, così costose da gestire, che lo Stato beneficiato si lega indissolubilmente al donatore, i Paesi che hanno ricevuto gli stadi hanno dovuto rafforzare la cooperazione con Pechino, semplicemente per manutenere le arene.

La verità è che il calcio europeo, e quello italiano in particolare, hanno bisogno di nuovi investimenti. Negli ultimi anni, molte squadre hanno visto crescere la loro potenza di fuoco proprio grazie all’acquisizione/fusione da parte di grandi gruppi stranieri, provenienti soprattutto da Paesi in piena crescita economica. Questo perché gli incassi derivanti dai diritti tv sono diventati sempre più importanti nei bilanci dei club e insieme alle plusvalenze hanno rappresentato, in media, l’80% del loro fatturato. Per “i big five”, le principali leghe europee – inglese, spagnola, tedesca, italiana e francese – l’apertura ai mercati internazionali è ancora più necessaria dopo la pandemia. Siamo passati dai 105,2 milioni di spettatori del 2018-2019 ai 73,8 del 2019-2020, fino a toccare appena i 6,8 milioni del 2020-2021. La perdita aggregata per le sole 5 Top Leagues calcistiche europee, tra le stagioni 2018-2019 e 2020-2021, è stata pari a 86 milioni di spettatori potenziali.

Le squadre di calcio sono diventate dei brand globali, dunque, che hanno rescisso il legame identitario con il campanile.

Da consumo comunitario e popolare delle curve, il calcio è diventato una commodity di lusso, che si fruisce individualmente in stadi-centri commerciali, o attraverso la TV e altri media, come ho sostenuto nel libro “Calcio e geopolitica. Come e perché i paesi e le potenze usano il calcio per i loro interessi geopolitici globali”, scritto per Edizioni Mondo Nuovo con Valerio Mancini e Narcís Pallarès-Domènech.

Questa trasformazione è legata al dato banale che Inter e Milan hanno più tifosi in Cina di quanti ne abbiano nella natia Milano. Portare la Serie A all’estero è dunque fondamentale per attrarre nuovi capitali e, magari, anche per esportare i valori di inclusività del nostro sistema Paese.

Ma se il calcio è sempre stato strumento di soft power per tutti, per i Paesi del Golfo rappresenta qualcosa di più. Un tassello dello “state building”. Ecco perché ha poco senso la critica avverso la mancanza di tradizione calcistica. I pubblici di questi Paesi seguono con entusiasmo il calcio, che mobilita meccanismi di coinvolgimento e di “nazionalizzazione delle masse”, come nelle teorie sociologiche di George Mosse.

Messi, ad esempio, è stato utilizzato nella campagna “Visit Saudi”, non solo per attirare turisti, ma anche per spingere i cittadini a riflettere sull’identità nazionale. Un processo che avviene oggi, dopo decenni di distruzioni di quartieri storici e perfino dei mausolei dei santoni islamici considerati empi dai wahabiti che hanno costruito il regno, per fare spazio a opulenti grattacieli. E il calcio è parte delle tante liturgie pubbliche utilizzate per costruire identità politiche.

Foto dal profilo Twitter della Lega Serie A

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