Il Dipartimento di Giustizia americano vuole fare a pezzi le attività di Google nel settore “ad tech”, una mossa estrema che non si vede dagli anni ’80. Il mercato pubblicitario è davvero così pietrificato da aver bisogno di una picconata statale, che arriverà se va bene tra qualche anno? I numeri dicono di no. È il momento di ripensare l’approccio antitrust nei confronti delle società tecnologiche, o resteremo fermi al 1911
Google è finita sotto inchiesta del Dipartimento di Giustizia americano (DoJ) con l’accusa di aver abusato della sua posizione dominante nel settore delle tecnologie pubblicitarie digitali. Il DoJ punta a scorporare le attività ad tech dal resto del gruppo, ed è una delle rarissime volte in cui l’autorità antitrust americana punta allo smembramento di un’azienda (l’ultima fu con il mercato delle società delle telecomunicazioni negli anni ’80, quando nacquero le cosiddette baby Bell, con risultati discutibili).
A leggere l’atto di 139 pagine, il DoJ vuole smembrare Google Ad Manager, piattaforma di gestione degli annunci per grandi publisher che include Doubleclick, AdMeld e la borsa in cui si scambiano le inserzioni, Ad Exchange. Il ricorso ricalca in parte quello del 2020 presentato dai procuratori di 10 diversi Stati americani e che aveva come oggetto le stesse attività di Google.
Qui non intendo discutere i dettagli del caso, che potrebbe durare anni, ma offrire una serie di elementi di riflessione: siamo sicuri che il diritto della concorrenza abbia gli strumenti adatti per affrontare le grandi questioni tecnologiche del presente e, soprattutto, dell’immediato futuro? Non parlo solo di quello americano: Unione Europea e Regno Unito hanno aperto vari procedimenti sulle attività delle aziende che occupano lo spazio tech.
Numeri e percentuali del settore
Proviamo ad analizzare un po’ di dati. Il business ad tech vale circa il 12% dei ricavi di Alphabet, la società “madre” di Google. Doubleclick nasce nel 1996 e viene acquisita nel 2008 per 3 miliardi di dollari, non certo un gigante. È stata l’azienda di Mountain View a renderla una delle infrastrutture portanti del settore. Chiedere di disfarsene è una decisione estrema, il tentativo di portare indietro le lancette indietro di 15 anni. Una mossa simile presuppone un mercato pubblicitario pietrificato, che danneggia i consumatori ed è inaccessibile ai rivali senza una picconata dall’autorità.
È davvero così? Nella pubblicità, Google ha circa il 26,5% del mercato statunitense (più un altro 2,9% di YouTube), una quota scesa di 10 punti percentuali rispetto al picco del 2015. Da allora è cresciuta la fetta di Meta (20%, ma in calo), che a sua volta è insidiata da Amazon, in rapidissima ascesa (al terzo posto con l’11%).
Inoltre, negli ultimi tre anni si sono fatti strada due pezzi da novanta: Apple e TikTok.
Se i ricavi pubblicitari dei cinesi sono schizzati a 10 miliardi di dollari, l’azienda che produce l’iPhone, la più grande al mondo, nel 2021 ha introdotto l’opzione “non mi tracciare”. Dando così una mazzata alle app che vivono di pubblicità come Facebook, Instagram, Snap, Twitter (e centinaia di altre più piccole), il tutto mentre si lanciava lei stessa nel settore dell’advertising, una mossa da molti considerata anticompetitiva: per fare un esempio, gli annunci personalizzati che Apple mostra agli utenti non finiscono sotto la schermata “vuoi essere tracciato?”…
Ma possiamo allargare lo sguardo a Netflix: la piattaforma di streaming con più utenti in assoluto ha introdotto un abbonamento con pubblicità, e a chi ha chiesto di raccoglierla? A Microsoft, che incidentalmente sta investendo 10 miliardi in OpenAI, per far crescere ChatGPT e renderlo in grado di insidiare il dominio di Google nella ricerca, magari rivitalizzando il proprio, poco diffuso, Bing.
Non si parla solo dei famigerati FAANG: ci sono oltre 20 società quotate specializzate nella tecnologia pubblicitaria (nel 2017 erano quattro), e in questo redditizio bacino si muovono anche Disney, Comcast, Paramount, Trade Desk – non certo delle fragili start-up – che non hanno paura di fare a sportellate per conquistare nuovi spazi. Editori e inserzionisti adottano decine di piattaforme in competizione tra loro senza che vi siano vincoli di esclusività. E qui si parla solo di aziende digitali, ma secondo l’associazione di settore Ccia (Computer & Communications Industry Association) andrebbero incluse anche tutte le aziende “offline” che si contendono il mercato, dalla televisione alla carta stampata, fino ai grandi magazzini Walmart e Target.
“Come associazione che in passato ha sostenuto l’intervento del governo in casi simili, riteniamo ingiustificato questo procedimento e i rimedi strutturali radicali che propone. C’è una concorrenza vigorosa nel mercato digitale su schermi di tutte le dimensioni e il ricorso [del DoJ] sembra non tenere conto di queste dinamiche e delle macro-tendenze pubblicitarie globali”, dice il presidente di Ccia Matt Schruers.
Serve un nuovo approccio antitrust
Non è questione di difendere Google, o le piattaforme tecnologiche che dominano il mercato pubblicitario in cui si muovono anche le testate online come la nostra (sigh!). Vorrei andare oltre i lanci di agenzia e capire se gli strumenti usati la prima volta nel 1911 – quando fu fatto a pezzi il monopolio petrolifero della Standard Oil di David Rockefeller, all’epoca l’uomo più ricco del mondo – siano ancora validi oggi. Se TikTok è stata l’app più scaricata negli store digitali per tre anni di fila, se nel giro di poche settimane i giganti tech hanno perso migliaia di miliardi di capitalizzazione e licenziato decine di migliaia di dipendenti, ha senso imbarcarsi in un procedimento già presentato a livello statale nel 2020, che si deciderà tra molti anni, quando il mondo digitale sarà cambiato altre dieci volte?
Nel 2024 il Digital Markets Act europeo inizierà a dispiegare i suoi primi effetti anche dalle nostre parti, con un’impostazione ancora più restrittiva nei confronti di quelli che (oggi) ritiene gatekeeper. Forse è il momento di ripensare l’approccio antitrust in un mercato “che continua a muoversi velocemente, e prevedere il suo percorso futuro non è compito semplice. Calcolare la natura dinamica di un’industria richiede solide basi di fatto e l’applicazione prudente di consolidate analisi antitrust”. Queste sono le parole che la Federal Trade Commission usò nel 2007 per dare il via libera all’acquisizione di Doubleclick da parte di Google.
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