Sebbene non succedesse più dal 1923, non è certo la prima volta che la dialettica interna a uno dei grandi protagonisti del bipartitismo statunitense richiede molte sessioni di voto per eleggere lo speaker della Camera che, secondo la Costituzione, non deve necessariamente essere un parlamentare. Cosa, questa, che dischiude la possibilità di grandi colpi di scena. L’opinione di Lucio Martino
Dopo due giorni e ben sei tentativi, il rappresentante repubblicano della California, Kevin McCarthy (nella foto), non è ancora riuscito a conquistare la posizione di speaker della Camera, la terza più importante nell’ordinamento federale statunitense, subito dopo quella del presidente e del vicepresidente. Votazione dopo votazione, e siamo già a sei, e nonostante grandi sforzi negoziali, i detrattori di McCarthy non hanno ammorbidito la loro posizione. Anzi, tra il secondo e il terzo scrutinio sono riusciti ad aumentare leggermente di numero. Ciononostante, McCarthy, nel frattempo, ha insistito sul fatto che non si farà da parte.
Almeno dalla metà dello scorso novembre era chiaro che l’elezione di McCarthy a speaker della Camera non sarebbe stata facile, perché già in quel momento era più che chiaro che almeno sei rappresentanti repubblicani ne avrebbero osteggiata la nomina. Se con il passare delle settimane il loro numero è triplicato, non deve sorprendere. Questo perché i Repubblicani molto più conservatori dell’aspirante leader della Camera non sono pochi. Dei ventuno che si stanno strenuamente opponendo al candidato californiano, tutti sono stati eletti in distretti così profondamente conservatori da renderli in sostanza invulnerabili a qualsiasi pressione esercitabile dal loro stesso partito. Cinque sono poi membri dell’House Freedom Caucus, essenzialmente l’ala parlamentare di quel “tea party” emerso con forza nell’ultimo decennio e che al momento concepisce come suo leader naturale il parlamentare repubblicano dell’Ohio Jim Jordan. Fin dai suoi primi giorni l’House Freedom Caucus si è contraddistinto come un gruppo estremamente conservatore, poco disposto a scendere a compromessi e notoriamente ostile all’establishment.
Che cosa vogliono i Repubblicani che stanno negando il voto a McCarthy? Intanto una netta riduzione del potere dello Speaker e poi, sostanzialmente, altre tre cose.
La prima, e di gran lunga la più importante, è che il nuovo speaker della Camera non sia un prodotto di quell’establishment nel quale intravedono l’origine di buona parte dei problemi del Paese. Sotto questo punto di vista, McCarthy con i suoi sedici anni di esperienza washingtoniana e una più che evidente propensione al negoziato e al compromesso, tanto da aver già accondisceso a molte delle richieste sollevate dai suoi oppositori, rappresenta un qualcosa d’inaccettabile, vale a dire un professionista della grande politica al quale non si può davvero concedere la propria fiducia.
La seconda, in linea con quanto sostenuto caparbiamente durante l’ultima stagione elettorale da buona parte degli ambienti più conservatori del Paese, è che il nuovo speaker della Camera renda completamente disponibili al pubblico, riversandoli liberamente nel web, tutti i documenti, ma proprio tutti, riguardanti gli eventi del 6 gennaio 2021 e non solo quelli resi disponibili dal comitato d’inchiesta parlamentare i cui lavori sono di recente terminati.
La terza è che il nuovo leader della Camera istituisca una commissione d’inchiesta, sul modello di quanto fatto alla metà degli anni Settanta per investigare sulle attività della Central Intelligence Agency, per indagare sull’eventuale politicizzazione del Federal Bureau of Investigation e del Department of Justice e quindi sul ruolo sempre eventualmente svolto da questi due organi federali per influenzare l’esito delle tornate elettorali degli ultimi anni. Con buona pace delle sue promesse, e paradossalmente anche per via di esse, McCarthy non è visto dai Repubblicani che gli stanno negando il loro voto come l’uomo giusto affinché queste richieste siano esaudite completamente e in tempi veramente rapidi.
A questo punto, oltre che cambiare le regole, passando dalla fin qui necessaria maggioranza assoluta a una prospettata maggioranza relativa, è difficile immaginare cos’altro potrà mai fare McCarthy per realizzare questa sua ambizione, posto che anche la possibilità di una convergenza di voti repubblicani e democratici sul rappresentante repubblicano del Nebraska Fred Upton, uno dei pochi Repubblicani che pur avendo votato a favore dell’impeachment dell’ex presidente repubblicano Donald Trump è ancora al Congresso, sembra aver sortito alcuno effetto sui suoi oppositori. E questo perché, qualsiasi accordo con i Democratici non sarebbe indolore, posto che non potrebbe non costargli concessioni come la presidenza di ben più di una commissione parlamentare.
In definitiva, quello in questi giorni offerto dal Partito Repubblicano è un ammirevole esempio di come funziona una forza politica in una democrazia parlamentare quando non evolve in una più o meno esplicita oligarchia. Sebbene non succedesse più dal 1923, non è certo la prima volta che la dialettica interna a uno dei grandi protagonisti del bipartitismo statunitense richiede molte sessioni di voto per determinare l’identità di uno speaker della Camera che, secondo quanto indicato dalla Costituzione, non deve necessariamente essere un parlamentare, cosa questa che dischiude la possibilità di grandi colpi di scena, quali, tra tutti, anche la candidatura di Donald Trump.