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Il whistleblowing in Italia. Come attuare le nuove regole

L’entrata in vigore di questa norma riporta all’attenzione la necessità che le organizzazioni si dotino di quello che nella definizione anglosassone è il Chief Corporate Social Performance and Ombuds Officer (CCSP). Il commento di Anna Zanardi, International board advisor and change consultant

Il Parlamento italiano sta in questi giorni lavorando per inserire nella legislazione nazionale la direttiva 2019/1937 dell’Unione Europea, comunemente identificata come la norma sul whistleblowing. Un passaggio di estrema importanza, perché la direttiva disciplina il tema estremamente sensibile della possibilità che chi viene a conoscenza di condotte o comportamenti illeciti, sia rispetto a norme comunitarie che nazionali, possa decidere di segnalarlo, con tutte le conseguenze del caso.

Una norma che riguarda sia le organizzazioni private che la pubblica amministrazione, e che in Italia assume una particolare rilevanza proprio per la frequenza dei tentativi di corruzione. Nei giorni scorsi sono stati arrestati due ex sindaci e un funzionario di un Comune della provincia di Venezia, grazie alla decisione di un professionista che ha consegnato alla magistratura la registrazione di un incontro durante il quale gli veniva chiesta una tangente per la conclusione di una procedura urbanistica.

Per favorire l’emersione di queste vicende la normativa europea prevede che le aziende e le pubbliche amministrazioni debbano dotarsi di canali telematici in grado di raccogliere le segnalazioni in condizioni di sicurezza, e lo stesso deve fare lo Stato a livello centrale. Naturalmente il sistema deve rispettare la privacy e garantire al possibile whistleblower di essere al riparo da ogni qualsiasi ritorsione. Il Parlamento italiano convertirà la norma europea, anche se stressando l’aspetto relativo alla privacy.

Aziende ed enti pubblici dovranno infatti dotarsi anche di una valutazione dell’impatto che la presenza del canale di segnalazione potrebbe avere rispetto ai requisiti stabiliti dalle norme sulla privacy. Nel frattempo Confindustria, l’associazione di categoria degli industriali, ha presentato al Parlamento un paper con cui richiede alcune modifiche alla norma, a partire dall’esclusione dall’obbligo delle imprese con meno di 50 dipendenti, fino alla richiesta di sanzioni efficaci per le segnalazioni false ed a un sistema di protezione per la persona coinvolta nelle segnalazioni, cui dovrebbe essere garantita la possibilità di difendersi dalle eventuali accuse.

Il punto però è un altro: qualsiasi norma per poter essere efficace deve inserirsi in un contesto culturale che sia pronto a farla propria, altrimenti rischia di rimanere lettera morta. A maggior ragione quando questa norma chiede a un attore (che può essere un dipendente, ma anche un azionista) di portare alla luce comportamenti scorretti all’interno della propria organizzazione. Nel dibattito che su questa norma si sta svolgendo in Parlamento, tutto legittimamente concentrato su una serie di requisiti formali, manca del tutto la valutazione di quello che può accadere nella realtà quotidiana delle organizzazioni: qual è il contesto in cui si muove una persona che viene a conoscenza di un illecito?

Ha a disposizione quello spazio di “sicurezza psicologica” che lo metterà in condizione di fare una scelta libera? O quel bullismo che è spesso implicito e troppe volte accettato nelle organizzazioni gli farà ritenere che è meglio non esporsi, persino in modo anonimo? Per poter far sì che una norma come il whistleblowing abbia i risultati auspicati è necessario che le organizzazioni abbiano creato al loro interno il giusto clima di fiducia. Perché è solo dalla fiducia che può partire un’assunzione di responsabilità di questo tipo, è la fiducia che trasforma un mero esecutore in un collaboratore partecipe e ingaggiato nella mission aziendale.

L’entrata in vigore di questa norma (che potrà al massimo essere ritardata di poco per le aziende più piccole) riporta all’attenzione la necessità che le organizzazioni si dotino di quello che nella definizione anglosassone è il Chief Corporate Social Performance and Ombuds Officer (CCSP), un ruolo che fatica ad affermarsi e che spesso viene confuso con l’Happiness Manager. Il CCSP dovrebbe essere un professionista con un ruolo sempre più centrale nelle organizzazioni. A lui il compito di individuare i molti comportamenti disfunzionali che si verificano quotidianamente nelle organizzazioni, dal bullismo alle discriminazioni, per poi costruire le strategie che consentano di creare un posto di lavoro dove le persone possano sentirsi sicure, giustamente valutate e positivamente ingaggiate.

Costruire questo tipo di ambiente di lavoro è un requisito necessario perché norme come quelle sul whistleblowing possano essere efficaci e attuate. Ma è soprattutto la condizione indispensabile per un’organizzazione adatta a generazioni maggiormente sensibili alla sostenbilità della performance, al benessere e alla coerenza, come sono quelle piu’ giovani.


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