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Quale ruolo per l’Europa nell’industria dei chip? Il punto di Aresu

Di Alessandro Aresu

Pubblichiamo il testo della relazione al seminario “L’industria dei microchip” (organizzato dal Laboratorio sull’Ecosistema Digitale in collaborazione con Cefriel) di Alessandro Aresu, consigliere scientifico della rivista Limes e autore del volume “Il dominio del XXI secolo”

Dal 2020, all’importanza che la microelettronica ha nelle nostre vite, che è tutt’altro che nuova, si è affiancato il suo rilievo nel dibattito pubblico. A seguito di eventi politici ed economici, dalla carenza di chip alle politiche industriali in materia, dalla strategia cinese delle acquisizioni all’escalation dei controlli sulle esportazioni degli Stati Uniti, sono aumentati i libri, i saggi e gli articoli dedicati a questo importante tema.

Dobbiamo collocare il volume collettivo di Astrid, L’industria dei microchip, in questo contesto, assieme al saggio di Enrico Sangiorgi nel convegno sul supercalcolo sempre di Astrid. Negli ultimi due anni hanno ricevuto un’audience internazionale le due giornaliste di Nikkei Asia basate a Taiwan, Cheng Ting-Fang e Lauly Ly, che secondo me sono le più brave al mondo, perché solo loro sono riuscite a spiegare il funzionamento della realtà industriale della microelettronica attraverso reportage di enorme accuratezza sui rapporti tra clienti e fornitori. Nel 2022 è stato pubblicato un libro ormai divenuto classico come Chip War di Chris Miller, che contiene un approfondimento essenziale sui rapporti tra il Pentagono e quest’industria. Nel mio libro Il dominio del XXI secolo (Feltrinelli, 2022) mi sono concentrato soprattutto su due nodi essenziali della storia della microelettronica: la vicenda di Morris Chang, e quindi la grande idea realizzata da TSMC della separazione tra progettazione e produzione, e la storia europea di ASML, il gigante olandese dei macchinari. Il libro di Marco Bardazzi, che sarà presentato il 2 marzo al Politecnico di Milano, ci consente poi di conoscere da vicino la storia e le storie di un’azienda cruciale per l’Italia come STMicroelectronics e le sue attuali e future prospettive. Questa breve carrellata vuole sottolineare l’importanza, anche culturale, del tema.

Quali sono quindi gli elementi essenziali che dobbiamo tenere a mente, per navigare nel mare della microelettronica, nelle sue caratteristiche economiche e politiche, mentre siamo ormai quasi “sommersi” da materiali di qualità e dall’interesse sulla materia? Direi che ci sono tre punti essenziali.

Il primo: capire come funziona una supply chain estremamente complessa, in tutte le sue sfaccettature. Ricordiamo brevemente di cosa stiamo parlando. Le attività di ricerca, di base e applicata. Gli strumenti di vario tipo per la progettazione. L’attività di progettazione. I materiali, la chimica, i gas industriali. I macchinari che, attraverso i loro diversi procedimenti, rendono possibile la produzione. L’attività di produzione e le sue fabbriche. Le macchine, i sistemi e le fabbriche per l’assemblaggio, il test e il packaging. Si tratta quindi di una filiera di enorme complessità, che non dobbiamo vedere in termini astratti, ma dove dobbiamo riconoscere la diversità di competenze necessarie, che sono tutte importanti, e dove ci sono molte variabili: una riguarda il ciclo spietato di ascesa e caduta che caratterizza l’industria nell’ambito della sua generale espansione, un’altra ha a che fare con l’incertezza sul momento in cui alcune innovazioni porteranno discontinuità significative in ambiti come automotive, applicazioni industriali e industria militare.

Il secondo punto riguarda, a mio avviso, il ruolo dell’imprenditorialità. La corsa della microelettronica si basa ancora, ma in termini molto discussi e in termini diversi a seconda degli ambiti, sulla Legge di Moore (da Gordon Moore, il co-fondatore di un’azienda chiave come Intel). Non è una legge della fisica ma è, in estrema sintesi, una guida dell’attività imprenditoriale, un modo con cui si porta la frontiera dei prodotti sempre più in là. In un’epoca di neo-interventismo pubblico globale, non dobbiamo dimenticare che grandi prospettive della microelettronica vengono da straordinari imprenditori, dalle loro intuizioni, dalla capacità di aver costruito realtà e processi divenuti imprescindibili: pensiamo al legame tra Morris Chang e Jensen Huang (co-fondatore e CEO di Nvidia), o a figure meno note come Aart de Geuss di Synopsys, per non parlare del capolavoro di turn-around aziendale di Lisa Su in AMD, che andrebbe insegnato e discusso in tutte le scuole di management. Nei miei libri ho argomentato la natura “politica” del capitalismo, basata sull’importanza della sicurezza nazionale. Ma la microelettronica mi ha insegnato quanto la relazione tra Stato cosiddetto “stratega” e politica industriale non vada mai posta in termini generici. Lo Stato, o meglio le persone, le comunità di ricerca, di impresa e di policy, devono saper leggere alcune supply chain, capire la posta in gioco, ma poi la vera chiave sta nella liberazione del talento imprenditoriale e nel rafforzamento dei rapporti tra le imprese, con benefici sui territori attraverso ecosistemi che possono diventare circoli virtuosi.

Vengo al terzo punto: è importante capire che gli Stati Uniti non sono in declino. Non bisogna infatti confondere il declino manifatturiero, un problema generale americano (che riguarda anche la produzione di circuiti integrati a semiconduttore), questione su cui l’amministrazione Biden è intervenuta in modo netto, con la catena del valore nel suo complesso. La quota di mercato globale degli Stati Uniti nella supply chain microelettronica parla da sola, e la grande forza dell’America sta nel controllo di alcuni nodi della supply chain, come EDA (Electronic Design Automation), progettazione avanzata, macchinari. In questi termini, la Valle del Silicio esiste ancora: da Fremont a Mountain View a Santa Clara, noi non abbiamo solo aziende come Tesla e Google, ma ci sono pure le meno note Synopsys, Lam Research, Applied Materials, asset fondamentali anche a livello geopolitico nella sfida alla Cina.

Questi tre punti possono aiutarci a ragionare anche sul ruolo dell’Europa, nel presente e nel futuro.

In primo luogo, le capacità europee esistono, e una volta che studiamo la supply chain possiamo scoprirle e valorizzarle in tutti i sensi. Possiamo rendere più visibile ciò che sembra invisibile, o meglio ciò che abbiamo sottovalutato. E possiamo ragionare sui segmenti più importanti per l’Europa e sulla loro evoluzione, a tutti i livelli, rafforzando ciò che già c’è e decidendo su quali gap è più urgente investire, per avere una scala più ampia.

In secondo luogo, il lavoro sul Chips Act europeo, grazie a una grande attenzione da parte della Commissione, ha portato un approccio senz’altro corretto con i suoi tre pilastri, che individuano punti essenziali della catena del valore su cui agire. Però anche su questo, come su altri aspetti del futuro europeo, c’è una questione politica che non dobbiamo nascondere. Mi riferisco ai ridotti finanziamenti comuni: nella competizione sulle tecnologie critiche non possiamo basarci solo su piccole variazioni del bilancio europeo (somme che peraltro spostiamo da una parte all’altra), perché altrimenti non avremo mai scala e perché altrimenti chi ha meno capacità fiscale è penalizzato.

In terzo luogo, nel lavoro del Chips Act possiamo individuare, a mio avviso, due punti che meritano più attenzione da parte del decisore europeo, con la collaborazione degli Stati membri. Penso al tema delle competenze e alla formazione dei talenti, un aspetto cruciale che merita una collaborazione ancora più forte tra gli attori di mercato e gli Stati, e poi il monitoraggio dei controlli sulle esportazioni, e i loro effetti diretti e indiretti sul mercato europeo.

Vorrei poi concludere con un elemento che viene ancora troppo spesso sottovalutato: la chimica. È tema centrale sia per le batterie che per la microelettronica. Credo che sarà molto importante per gli europei comprendere meglio le proprie capacità chimiche, capire come conservarle e aumentarle, anche evitando provvedimenti nell’ambito di alcuni aspetti dei “piani verdi” che possono risultare autolesionisti perché la perdita di capacità ci rende vulnerabili. Quello della chimica è uno dei colli di bottiglia meno considerati, e a cui vale ancora la pena di dedicare molte ricerche, per il più adeguato bilanciamento tra l’essenziale sicurezza ambientale e la cruciale sicurezza della supply chain.

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