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Ecco la vera vittoria di Djokovic. L’opinione di Pellicciari

La vicenda di Djokovic è stata strumentalizzata dagli schieramenti pro e no-vax, eletta rispettivamente a testimonial negativo e positivo in una polemica nata senza esclusione di colpi, con argomenti per screditare piuttosto che comprendere la parte opposta. L’opinione di Igor Pellicciari

Il ritorno vittorioso di Novak Djokovic agli Open di Australia meriterebbe considerazioni extra-sportive in misura uguale a quelle seguite alla sua esclusione dalla precedente edizione del torneo. La notizia invece è rimasta relegata nelle cronache del giorno dopo, con un basso profilo tutt’altro che casuale, per un finale non in sintonia con la “morale della favola” che il mainstream aveva previsto con largo anticipo.

L’aspetto sanitario

La vicenda di Djokovic è stata strumentalizzata dagli schieramenti pro e no-vax, eletta rispettivamente a testimonial negativo e positivo in una polemica nata senza esclusione di colpi, con argomenti per screditare piuttosto che comprendere la parte opposta.

Se la veemenza verbale dei no-vax era da mettere in preventivo (le minoranze ideologizzate alzano i toni per farsi notare), lascia perplessi che il fronte della comunicazione istituzionale pro-vax sia sceso sullo stesso piano.

Non piace il cospirazionista che associa (e addirittura augura) a chi si è vaccinato ogni tipo di patologia, ma ancora di meno quelle voci istituzionali che hanno sperato in un tracollo sportivo di Djokovic al punto di rammaricarsi apertamente della sua vittoria.

Come ha fatto Roberto Burioni, capogruppo dei virologi che nel promuovere l’immunizzazione dal Covid, sono ahimè rimasti contagiati dal virus del presenzialismo mediatico, ad oggi privo di una cura efficacie.

Invece che polemizzare a gettone, questa virologia-spettacolo dovrebbe interrogarsi sulle proprie responsabilità se dopo tre anni di monopolio della comunicazione pubblica, un numero crescente di persone (che non sono no-vax) hanno dei dubbi sulla narrativa del vaccino.

L’aspetto umano

Chi esce meglio da questa vicenda è l’uomo Djokovic.

Trovatosi tra l’incudine e il martello di una minoranza che lo ha santificato e di un mainstream che lo ha demonizzato, non è caduto nella tentazione di consegnarsi alla prima e di polemizzare con il secondo.
Ha adottato un atteggiamento misurato nelle parole e tuttavia coerente nel tenere una posizione contraria al vaccino ma non caricata di significati no-vax, mantenuta entro i confini di una scelta personale, criticabile ma legittima.

Non ha reagito alle grossolane falsità girate sul suo conto, vecchia scorciatoia cinica che punta a distruggere il personaggio per discreditarne le azioni.

Che persona sia Djokovic e quanto gli sia costato emotivamente il silenzio che si è imposto in questi mesi lo dice la cerimonia di premiazione all’Australian Open. Tornato vincitore là dove era stato umiliato con una procedura di fermo prevista per gli immigrati illegali, Nole ha tenuto un discorso di rara profondità per un evento sportivo e tuttavia senza mostrare il minimo segno di rancore per il passato.

L’aspetto culturale

Un anno fa ho criticato un intellettuale della levatura di Sandro Veronesi che sul Corriere della Sera aveva previsto che Djokovic era destinato a “perdere tutto” e che aveva “tradito lo spirito balcanico”. Altri avanzarono tesi simili ma con toni e prosa molto più rudi e argomentare basico, segno di una scarsa conoscenza del mondo slavo.

Riproponevano il cliché storico del serbo irrazionale e ribelle, simile a quello che resiste nei Balcani dell’italiano dannunziano con ambizioni territoriali sull’Istria. Sono raffigurazioni culturali generiche e superate – soprattutto nel mondo sportivo e nelle nuove generazioni post-jugoslave.

Che quei commentatori, smentiti dai fatti, non abbiano sentito la necessità di tornare sull’argomento dice molto di una attitudine nostrana a rimuovere il ricordo delle proprie sviste ed errori del passato.

Come di un Paese pronto a giudicare gli altri mentre assolve sé stesso dice il minore clamore suscitato oggi da nostrane tenniste e cantanti ricorse al trucco italico di falsificare il certificato di vaccinazione. E che nonostante questo “non perdono nulla”, neanche la comparsata a Sanremo.

L’aspetto geopolitico

Al livello bilaterale dei rapporti serbo-australiani, la vittoria di Djokovic ha avuto l’effetto di calmare le acque tra i due Paesi, arrivati l’anno scorso all’ incidente diplomatico con dure polemiche dirette tra Belgrado e Sydney.

Inoltre, ha dato una valvola di sfogo positiva alla vastissima comunità serba presente in Australia, che nel 2022 era scesa in piazza a Sydney per protestare per l’esclusione di Djokovic e che quest’anno ha partecipato in massa al torneo con un tifo da stadio, bandiere e simboli folkloristici serbi.

È probabile che la necessità di non frustrare questi serbo-australiani sia anche all’origine dell’atteggiamento conciliante mostrato delle autorità di Sydney, che hanno cercato di evitare ogni incidente che potesse riattivare la precedente tensione.

L’aspetto sportivo

Il percepibile affetto mostrato dagli organizzatori dell’Australian Open nei confronti di Djokovic ha confermato il sospetto che l’incidente dell’anno scorso sia stato cercato e gestito dal governo australiano.

Ha pure confermato che oramai il sacro valore dell’autonomia dello sport è diventato vuoto slogan da cartolina in una realtà dove sono all’ordine del giorno le incursioni delle istituzioni governative per le questioni politiche e degli Sponsors per quelle economiche.

Non basta l’avversione al vaccino a spiegare la nettamente minore visibilità mediatica data a Djokovic per il record di 22 vittorie in tornei Grand Slam, rispetto alle celebrazioni retoriche che sono state riservate a Raphael Nadal per il raggiungimento dello stesso risultato.

Né il fatto che nessuno abbia ridotto il significato della vittoria dello spagnolo all’Australian Open dell’anno scorso, oggettivamente facilitata dall’esclusione forzata del serbo dal torneo.

Narrative di guerra vs informazione

Si obietterà che il trattamento riservato a Djokovic è stato necessario nel quadro più complessivo della “guerra al Covid-19”.

Ha fatto giustamente notare Massimo Cacciari che è normale che durante una guerra la narrativa di parte sovrasti le informazioni “oggettive”.

Il che tuttavia apre alla prospettiva inquietante di una stagione di guerre reali e ibride (al virus, al terrorismo, all’inflazione, al riscaldamento globale, energetiche etc.) che in nome di uno stato di emergenza permanente porti ad un alternarsi senza soluzione di continuità di narrative-di-giusta-causa.

E il pluralismo della disinformazione a sostituirsi al diritto all’informazione.

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