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“Il mio arresto si poteva evitare”. Il dialogo di Carra con Gherardo Colombo

Di Enzo Carra

Enzo Carra pochi giorni fa aveva consegnato le bozze definitive del suo libro “L’Ultima Repubblica” all’Eurilink University Press. Su Formiche.net pubblichiamo un estratto dell’introduzione scritta insieme a Gherardo Colombo, all’epoca pm del pool di Mani Pulite, con il quale Carra si è incontrato 30 anni dopo il suo famigerato arresto, diventandone amico. E anche un pezzo dell’ultimo capitolo, con le sue riflessioni sulla Prima e la Seconda Repubblica

Estratti dal libro “L’ultima Repubblica” di Enzo Carra, per gentile concessione di Eurilink University Press

(Dall’Introduzione con Gherardo Colombo)

(Enzo Carra) Trent’anni orsono gli italiani hanno assistito impassibili al crollo del sistema dei partiti che avevano scritto la Costituzione della Repubblica. Con lo stesso atteggiamento seguono, trent’anni dopo, gli sviluppi della crisi in cui si dibattono politica, giustizia e ordine giudiziario. Per il bene dell’Italia si sarebbe dovuto fare il possibile per ridurre il peso dell’inchiesta Mani Pulite sulle istituzioni e sull’economia. Questa era responsabilità comune delle istituzioni. Trent’anni orsono, all’epoca di Mani Pulite, io ero a San Vittore e Gherardo Colombo nel pool di Milano. Trent’anni dopo ci siamo incontrati di nuovo, ci siamo conosciuti davvero e siamo diventati amici. -Condividiamo molti dubbi e qualche certezza. Pensiamo con Montaigne che “Non sono abbastanza e quindi non sono abbastanza rappresentati coloro che fanno in modo che la giustizia funzioni perché chi delinque non vuole che la giustizia funzioni. Se funzionasse questi sarebbero scoperti e sanzionati”. La conversazione con Gherardo Colombo è alla base del racconto ed è anche la sua introduzione. Che comincia dalla Giustizia.

La separazione dei poteri non esclude contagi ed epidemie. L’impenetrabilità dei poteri non consente il mutuo soccorso. In questo ambito ciascuno deve pensare e curare se stesso, ma deve pure badare al bene comune che non può fare a meno di istituzioni efficienti. Quando una di queste chiama in causa un’altra, è successo più volte tra potere giudiziario e legislativo, dovrebbero essere protetti i limiti di quest’azione. Limiti che non riguardano le persone e i loro reati, ma il potere all’interno del quale esse operano. Questo riguardo non c’è stato nell’inchiesta Mani Pulite e qui non interessa approfondire i contorni di eccezionalità e vastità dell’inchiesta che possono spiegare se non giustificare le ricadute che hanno messo in ginocchio i partiti. Il successo dell’operazione è stato tale da trasformare nel discorso pubblico il potere giudiziario da vindice dei torti subìti dal popolo in custode e garante del buon avvio di una nuova stagione per l’Italia finalmente libera dai lacci della guerra fredda e dalla voracità della politica. Per raggiungere il risultato si poteva fare un altro percorso?

(Gherardo Colombo) Eppure non una persona sarebbe andata in carcere se, come suggerito nel luglio del 1992, ben prima (data la rapidità dell’evolversi degli eventi) della nomina di Martinazzoli, la “politica” avesse scelto di seguire la strada dello scambio tra ricostruzione dei fatti ed estromissione dal processo. Chi avesse raccontato, restituito e temporaneamente abdicato alla vita pubblica non avrebbe più avuto a che fare con la giustizia penale. Forse la politica non avrebbe potuto, perché il cane da guardia avrebbe abbaiato troppo, dimenticandosi, come spesso continua ad avvenire, che anche nello svolgimento della sua funzione è necessario riferirsi alla Costituzione, per la quale la dignità di qualsiasi persona è sacra. I partiti sono morti da soli, entrati in agonia quando ancora le indagini non erano decollate, e a queste si può soltanto addebitare un – non certo gentile – accompagnamento verso l’esito finale (che non è intervenuto per tutti contemporaneamente: l’esito è stato ancor più letale per quelli la cui agonia si è protratta più a lungo). Sono morti perché sono cambiati gli equilibri del mondo e, così come erano, non avevano più la ragione di esistere.

(Enzo Carra) A proposito di Martinazzoli e di arresti che si sarebbero potuti evitare, ci sarebbe anche il mio. Metà marzo del 1993, appena tornato a Roma dopo San Vittore e il processo “per direttissima” reso popolare dai miei “schiavettoni”, Martinazzoli mi cerca e ci incontriamo a piazza del Gesù. Parliamo per ore e prima di salutarci: “Ma che prove avevano che tu sapessi e non volessi collaborare?”. Mi chiede Martinazzoli. Sto per rispondergli, ma lui riprende: “Insomma, tu non potevi non sapere della maxitangente Enimont, perché così aveva dichiarato un tale imputato in altro procedimento? È così?”. Così. Quanto al pool non ha fatto molto per passare inosservato, anzi ha generosamente distribuito adrenalina a una popolazione mobilitata davanti al televisore e divisa tra chi esultava e chi piangeva. Vittoriosi e vinti.

(Gherardo Colombo) Ci si dimentica del ruolo del “quarto potere”, una volta la stampa, ora i media, che è stato il vero artefice della “deificazione” dei magistrati all’inizio delle indagini e della loro “demonizzazione” quando le indagini volgevano a termine e si intensificava la stagione dei processi. Certo, anche la magistratura (meglio, qualche magistrato) anche inconsapevolmente ha dato allora una mano a scaricare sulla sua categoria responsabilità non sue, ma attribuire a chi ha svolto le indagini la caduta dei partiti è voler assolvere con una motivazione farlocca i partiti di allora.

(Enzo Carra) La Grande Inchiesta si inserisce in una storia d’Italia che è una storia dell’emergenza. Un’emergenza bagnata di sangue. Di molto sangue, sparso dovunque da terroristi, da criminali, da traditori dello Stato. Strategia della tensione, anni di piombo, stragismo della criminalità organizzata. Un orrendo miscuglio di brigatisti rossi, neofascisti, spioni “deviati” che insieme a massoni, anch’essi “deviati”, fanno affari e organizzano attentati, mafiosi e ‘ndranghetisti amici di potenti. Una catena che va dal 12 dicembre 1969 a Milano, piazza Fontana, e poi con la morte accidentale dell’anarchico Giuseppe Pinelli e se finisce, ma non si può mai dire, è trent’anni dopo con Totò ‘u curtu a Capaci e a via D’Amelio. Sotto i nostri occhi scorrono le immagini del male in tutte le pose e le specializzazioni che ci inchiodano all’emergenza continua.

Oggi torniamo a parlare di partiti e ne lamentiamo l’inesistenza. Un patrimonio politico, con i suoi vizi e le sue non misurabili virtù, è andato completamente perduto. Quel patrimonio era costituito da una visione del mondo, un’identità, un pantheon ideale e gli aderenti trovavano naturali certi comportamenti e certe scelte. Il partito era tante cose, ma era anche vita quotidiana. Se, come osserva Edgar Morin, “Più i problemi della civilizzazione diventano politici, meno i politici sono capaci di integrarli nei loro linguaggi e nei loro programmi”, ora avremmo nuovamente bisogno di quelle associazioni.

(Gherardo Colombo) A mio parere dipende tutto dalla capacità che l’essere umano avrà di rendersi conto dell’importanza di spostare, almeno un po’, lo sguardo da se stesso all’altro. Solo così potrà cambiare il senso delle relazioni umane, ci si potrà educare alla solidarietà, l’individualismo lascerà un po’ di spazio alla solidarietà. Del passato rimpiango un periodo, quello che va dal giugno 1946 al dicembre 1947, quando poco più di cinquecento persone furono messe insieme (dal popolo italiano) per creare la pietra angolare del nuovo stare insieme. Riuscirono a mettere insieme individuo e società, persona e collettività (così dice l’articolo 2) partendo dalla constatazione della pari dignità universale. Vuoi un vaticinio? Dipende, dipende da noi, dipende da chi verrà dopo di noi. Staremo a vedere, può dire qualcuno più giovane di te e di me.

(dall’ultimo capitolo)

Dovremo fare memoria di quanto è successo negli ultimi trent’anni. Un periodo che per valore storico non è inferiore ai primi quarant’anni della Repubblica. Un periodo nel quale abbiamo cambiato molto nella vita pubblica e nelle istituzioni, ma abbiamo commesso anche molti errori. Esemplare è una testimonianza resa proprio nei giorni in cui tutto cominciò, tra il gennaio e il marzo del 1993. In quei giorni, Daniel Server, Incaricato d’Affari dell’Ambasciata statunitense in Italia, ragguaglia su Tangentopoli il Dipartimento di Stato e osserva che i magistrati hanno “intrapreso un processo di cambiamento che non possono controllare o guidare completamente”, perché la loro “responsabilità è quella d’assicurarsi che giustizia sia fatta, non di indicare linee politiche per stabilire quando abbastanza è abbastanza”. “Quello – conclude – è un lavoro che spetta ad altri”. Gli “altri”, però, anzitutto gli elettori italiani, quindi Parlamento, Governo, Autonomie, organi di controllo, sono ugualmente responsabili. Per molti anni le “classi dirigenti” si sono divise tra quanti non fanno perché temono di essere scoperti e quanti non hanno il fegato di fare quel che meglio di loro fa la Magistratura. I due grandi partiti del nostro bipolarismo immaginario, il partito di Berlusconi e quello del centrosinistra per molto tempo sono d’accordo su di un punto: il “giustizialismo”, la via più semplice per un ricambio che interessa sia ai “buoni” sia ai “cattivi”. Realizzato il ricambio, a destra si torna al garantismo estremo.

Adesso che la Repubblica bipolare è un ricordo, possiamo riconoscerle il merito di aver adempiuto piuttosto bene al compito che le era stato affidato: quello di nascondere e far dimenticare i fatti della Prima. Funzione per la quale, un tempo, ci si rivolgeva al fuoco per incenerire carte, responsabilità e colpe. Sotto la cenere è nascosta però la lettera scarlatta, l’avviso che i conti con la Storia vanno fatti.

Noi ci illudiamo di aver sepolto il passato, ma il pubblico dei giovani lo avverte e, disgustato dalla mistificazione, lascia la sala arrabbiato e abbandona i vecchi alla insulsa fatica di ritoccare o falsificare le loro carte d’identità e i loro curriculum vitae. Addio all’autunno. A meno di vent’anni dalla fine della guerra, Ruggero Zangrandi, introducendo il suo lungo viaggio, si rivolge alle “nuove generazioni, immuni da polemiche retrospettive”. Zangrandi scrive per loro, per i giovani che “premono perché si vada avanti e, a questo scopo, vogliono anche sapere di più sul passato, non si appagano di versioni ufficiali, chiedono tutto a tutti e di tutto”. Per lui “è giunto, quindi, veramente il momento che ognuno dica la sua parte di verità, offra la sua interpretazione, esponga la propria esperienza

Questo momento sta arrivando. E ci sarà anche il tempo per riflettere se davvero una Prima Repubblica corrotta sia stata rovesciata da una virtuosa Seconda Repubblica o se di repubbliche ve ne sia stata sempre una sola e alla prima parte vadano riconosciuti molti meriti.

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