La formazione scolastica ricopre un ruolo primario nella sicurezza nazionale. Se ne è parlato alla lezione dal titolo “Disagio sociale e sicurezza: l’emergenza educativa” che Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Giovanni Agnelli, ha tenuto al master in Intelligence dell’Università della Calabria, diretto da Mario Caligiuri
Un rapporto americano del 1983 intitolato “Country At Risk” sottolineava l’importanza di riformare il sistema educativo tenendo conto del forte impatto che questo ha sulla sicurezza nazionale. Quel report poneva l’accento sulla necessità di garantire una formazione di alto livello per la classe dirigente e per la cittadinanza futura. Un elemento probabilmente reale, stando alle stime Osce, le quali prevedono che, in media, un miglioramento del 10% dei punteggi dei test Pisa si tradurrebbe in una crescita del 5% del PIL dopo 30 anni.
Ma qual è la situazione italiana in proposito? Proviamo a fare chiarezza prendendo spunto dalla lectio “Disagio sociale e sicurezza: l’emergenza educativa” tenuta da Andrea Gavosto, Direttore della Fondazione “Giovanni Agnelli”, al master in Intelligence dell’Università della Calabria, diretto da Mario Caligiuri.
“L’istruzione aumenta anche la partecipazione civica e politica, che promuove i principi democratici e ha benefici a catena sulle strutture sociali, politiche e di sicurezza nazionale”, spiega Gavosto. Tuttavia, le statistiche mostrano che l’Italia è purtroppo in ritardo rispetto agli altri Paesi europei nella classifica dell’Ocse per quanto riguarda la qualità dell’istruzione. In particolare per quanto riguarda i punteggi nei test di conoscenza di base, il livello di pensiero matematico e scientifico e il problema dell’abbandono scolastico.
Secondo i test Invalsi 2022, il 51% degli studenti italiani delle scuole superiori si colloca al di sotto del livello richiesto di competenza matematica in diversi momenti della carriera scolastica. In alcune località del Sud la percentuale supera il 70%; nel 2019 era del 42%. In effetti, i sondaggi nazionali mostrano spesso prestazioni sostanzialmente peggiori al Sud, nonostante il maggior numero di titoli conferiti “con lode” nei diplomi, sintomo di una mancanza di oggettività nelle procedure di valutazione utilizzate, che sono ovviamente diseguali.
C’è poi un ulteriore tema che grava sul sistema di istruzione italiano, ovvero il cosiddetto inverno demografico: “La previsione di una popolazione studentesca in costante calo è un fenomeno che vincolerà le riforme dei piani di formazione e la ridistribuzione del numero di insegnanti”, ricorda il docente.
I redditi degli insegnanti italiani, poi, sono spesso inferiori alla norma europea. Inoltre, per attrarre i migliori laureati in materie scientifiche occorre superare l’omogeneità delle retribuzioni a livello disciplinare e territoriale.
Rispetto alle loro controparti europee, i docenti italiani sono più preparati sui rispettivi campi che sull’insegnamento. Una proposta di riforma potrebbe distinguere tra l’abilitazione, che garantisce il possesso delle competenze disciplinari e didattiche (teoriche e pratiche) necessarie per insegnare, e il reclutamento (concorso o assunzione diretta).
Il monte ore annuo di insegnamento frontale, marginalmente inferiore a quello di altri Paesi, è un’altra considerazione importante per gli insegnanti italiani. La pianificazione del lavoro comune, la preparazione delle lezioni, la correzione dei compiti e la crescita professionale sono generalmente lasciate all’iniziativa individuale e hanno un impegno contrattuale molto limitato.
Tutti questi elementi sottolineati potrebbero essere, in parte, affrontati utilizzando i fondi messi a disposizione dal Pnrr, nonostante la presenza di problemi strutturali che mettono in dubbio la possibilità di raggiungere gli obiettivi previsti, come evidenziato dal docente.