Il diritto fa molta fatica a tenere il passo della tecnologia, in particolare dell’Intelligenza artificiale. Spesso per avere qualche risposta bisogna aspettare la giurisprudenza, sempre che ci sia qualche “vittima sacrificale” che per primo voglia avventurarsi in un costoso e incerto contenzioso. Ecco perché è utile studiare i termini d’uso delle piattaforme. L’avvocato Simone Aliprandi prosegue la sua analisi su OpenAI e Midjourney
In un precedente articolo abbiamo cercato di fare un po’ di luce su come il diritto d’autore inquadra le opere realizzate con sistemi di intelligenza artificiale “generativa”, arrivando a spiegare in quali termini queste creazioni possono essere considerate come opere tutelate. Abbiamo dovuto procedere per principi generali perché, come spiegato, ad oggi anche nelle legislazioni più avanzate non esistono norme specifiche sul copyright applicato a questo tipo di creazioni. Non esistono nemmeno sentenze importanti che possano fungere da precedente. Il fenomeno è davvero così nuovo e tuttora in frenetica evoluzione, che difficilmente possono esistere delle regole applicabili a priori e adattabili a tutte le situazioni e a tutti i contesti. In mancanza, dunque, non ci resta che spostarci a un secondo livello, quello dei termini d’uso delle varie piattaforme, e cercare lì qualche risposta.
Un contratto tra il fornitore del servizio e l’utente
Capiamo innanzitutto che cosa sono i termini d’uso e che tipo di “norma” sono per il diritto. L’utilizzo di tutti i servizi online, dai più radicati (come YouTube, Twitter, Facebook) ai più recenti (come appunto i sistemi AI fruibili in cloud), è regolamentato da un contratto che si instaura tra il fornitore del servizio (o service provider) e l’utente. Questo documento viene comunemente denominato in inglese Terms of use, Terms of service (anche abbreviato in TOS) o Terms and Conditions ed è a tutti gli effetti un contratto che viene predisposto
Secondo le tipiche categorie del diritto civile è dunque un contratto sinallagmatico (nel senso che prevede prestazioni corrispettive per entrambe le parti), standardizzato (perché il suo contenuto è sempre uguale per tutti contraenti) e per adesione (nel senso che una delle due parti può solo aderire alle condizioni così come sono, senza possibilità di proporre adattamenti o modifiche). Ne consegue che, appunto, il testo di questi contratti è redatto dall’ufficio legale del service provider e viene esposto sul sito web o nell’applicazione in modo che sia facilmente visionabile da tutti i potenziali utenti; e questi ultimi lo “sottoscrivono” nel momento in cui si registrano sulla piattaforma e spuntano l’apposita casella “accetto i termini di utilizzo”. Che poi nessuno li legga davvero e tutti li accettino quasi senza pensarci, è un altro paio di maniche. Non solo: periodicamente i termini d’uso vengono aggiornati unilateralmente dal service provider e di ciò viene inviata notifica a tutti gli utenti; con l’avviso che, qualora l’utente non sia d’accordo con le modifiche effettuate, deve interrompere l’utilizzo e, qualora invece l’utente continui a utilizzare il servizio, ciò verrà inteso come tacita accettazione.
Un ulteriore strato di regole
Nei termini d’uso si cerca di regolamentare le varie situazioni e i vari scenari giuridicamente rilevanti che possono verificarsi nell’utilizzo della piattaforma; vengono stabiliti quali comportamenti e quali contenuti sono permessi e quali invece sono vietati.
Il tutto, ovviamente, con una velata tendenza alla tutela del service provider e allo scarico di responsabilità a suo vantaggio. D’altronde, cosa potremmo aspettarci di diverso?. La piattaforma l’ha messa in piedi lui, i server li mantiene lui, gli avvocati li paga lui, e per di più ci lascia utilizzare il servizio gratuitamente. Teniamo infatti presente che il service provider è normalmente una realtà commerciale, che deve fare business e generare introiti, facendo fruttare gli ingenti investimenti fatti e riparandosi il più possibile da rischi legali che possano danneggiarlo.
Possiamo quindi dire che i termini d’uso, in un certo senso, rappresentano un “ulteriore strato di regole” di natura contrattuale; uno strato che in molti casi diventa il primo riferimento a cui guardare in caso di problemi e controversie. Qualcuno sta violando la mia privacy pubblicando un’immagine senza il mio consenso o il mio copyright utilizzando un mio brano musicale senza legittima licenza? Prima ancora di rivolgermi a un legale o alle autorità competenti, posso provare a far leva sulle regole interne della piattaforma e chiedere al service provider di intervenire. È un meccanismo che ormai ci accompagna da quasi un ventennio e a cui siamo ormai abbastanza abituati; ma a ben vedere ne abbiamo poca consapevolezza e vi prestiamo in generale poca attenzione.
Se il diritto non tiene il passo, i termini d’uso dei servizi diventano un riferimento
In un mondo come quello di oggi in cui l’innovazione va a una velocità davvero impressionante, il diritto fa seriamente fatica a tenere il passo. Noi giuristi siamo sempre stati un po’ indietro, per una ragione strutturale: prima di regolamentare un fenomeno bisogna attendere che questo fenomeno si manifesti e prenda una forma più o meno stabile. Se ogni anno arriva un nuovo fenomeno rivoluzionario e impattante come sta accadendo da alcuni anni, è chiaro che i legislatori non riescono a fornire risposte “normative” in termini sufficientemente rapidi, perché il processo di stesura e approvazione delle leggi ha i suoi tempi (legittimi).
Succede quindi spesso che i primi a fornire risposte siano i giudici, con la loro giurisprudenza. Anche in quel caso però il tutto non è immediato; anche i processi hanno i loro tempi e soprattutto, perché un giudice possa esprimersi, c’è bisogno di qualche “vittima sacrificale” che per primo voglia avventurarsi in un costoso e incerto contenzioso giudiziale. Ecco perché alla fine diventa centrale e interessante rivolgere il nostro sguardo agli uffici legali delle aziende impegnate nelle sfide dell’innovazione tecnologica e cercare le prime risposte proprio nei termini d’uso che essi hanno redatto e messo a disposizione. Tutto ciò è particolarmente vero nel caso di cui ci stiamo occupando, l’intelligenza artificiale generativa: un’innovazione dirompente come poche altre, che dal punto di vista giuridico pone interrogativi di non facile soluzione e per cui, al momento, le risposte solide non sono molte. Allora, ecco perché diventa utile un focus e un commento ai termini d’uso di due tra le principali piattaforme AI: OpenAI (quindi anche ChatGPT e DALL-E) e Midjourney.
Con un avvertimento importante: i TOS di questi servizi, proprio perché siamo in una fase di frenetica evoluzione e di apertura verso nuovi scenari e nuovi mercati, sono oggetto di aggiornamento molto frequente. Quindi ciò che diremo ovviamente è basato sui testi disponibili alla data di redazione/pubblicazione di questo articolo. È quindi responsabilità del lettore verificare che non siano emerse modifiche.
La proprietà intellettuale nei termini d’uso di OpenAI
Iniziamo dai TOS di OpenAI (vedi https://openai.com/terms/) che valgono sia per ChatGPT sia per DALL-E e che trattano il tema della proprietà intellettuale alla Section n. 3 intitolata “Content”. Il documento di rivolge all’utente con la seconda persona, dunque quando dice “tu”, “te”, “tuo”, si sta rivolgendo all’utente.
Innanzitutto (paragrafo A) si procede a una definizione di “tuo contenuto”, e già l’utilizzo dell’aggettivo possessivo “tuo” ci fa capire qual è l’approccio applicato da OpenAI. Si parla poi della distinzione tra “input” e “output”: il primo è il comando fornito dall’utente al sistema AI (che può essere un testo, un’immagine, un altro tipo di file); il secondo è ciò che il sistema AI realizza partendo da quell’input. Entrambi sono considerati (ai sensi dei termini d’uso) come “tuo contenuto”. Leggiamo:
Puoi fornire input ai Servizi (“Input”) e ricevere output generati e restituiti dai Servizi in base all’Input (“Output”). Input e Output sono collettivamente definiti come “Contenuti”. Tra le parti e nella misura consentita dalla legge applicabile, tu sei il proprietario di tutto l’Input, e a condizione del tuo rispetto di questi Termini, OpenAI ti assegna tutti i suoi diritti, titoli e interessi relativi all’Output.
Molto chiaro: le parti si accordano affinché i diritti di utilizzazione sull’input e sull’output siano dell’utente. Dunque l’utente ha piena libertà di utilizzarli, pur tenendo presenti alcuni aspetti precisati nei paragrafi successivi.
Dal canto suo OpenAI si riserva la possibilità di utilizzare i contenuti per propri scopi interni “come necessario per fornire e mantenere i Servizi, conformarsi alla legge applicabile e far rispettare le proprie politiche.”
Oltre ai diritti di utilizzo in senso stretto, i TOS di OpenAI si soffermano sul tema della responsabilità, avvertendo che l’utente è “responsabile dei Contenuti” e spetta a lui “assicurarsi che non violino alcuna legge applicabile o questi Termini”; in altre parole, sta sottolineando che spetta all’utente l’onere di verificare che l’input da lui caricato sia effettivamente utilizzabile e non sia a sua volta coperto da diritti di privativa di terzi o da altri vincoli (privacy, segretezza).
Il problema della somiglianza degli output nei TOS di OpenAI
Uno degli aspetti più interessanti che emergono nei TOS di OpenAI è quello della “similarity of content”, che è trattato nel successivo paragrafo B e che più di tutti ci spinge a una riflessione su quanto la diffusione delle intelligenze artificiali generative ci chiamino a ripensare il concetto stesso di creatività (come già prospettato nel precedente articolo). Pur assegnando all’utente i diritti di utilizzo sull’output, OpenAI ci avverte che, a seconda degli input immessi, potrebbe fornire un risultato molto simile o addirittura identico a due o più utenti.
A causa della natura dell’apprendimento automatico, l’Output potrebbe non essere unico tra gli utenti e i Servizi potrebbero generare output identici o simili per OpenAI o un terzo. Ad esempio, potresti fornire input a un modello come “Di che colore è il cielo?” e ricevere un output come “Il cielo è blu”. Altri utenti potrebbero anche fare domande simili e ricevere la stessa risposta. Le risposte richieste e generate per altri utenti non sono considerate i tuoi Contenuti.
In sostanza, con l’ultima frase di questo paragrafo, OpenAI si sta spogliando di eventuali responsabilità legate alla somiglianza degli output e foriere di diatribe sulla proprietà intellettuale. Come a dire: “io ti ho avvisato che potrebbe accadere, quindi non te la prendere con me”. La domanda a questo punto diventa: posso forse prendermela con l’altro utente che, pur essendo arrivato dopo di me ed essendo comunque in buona fede, ha ottenuto un output molto simile o identico al mio e l’ha pubblicato diffondendo così un’opera che può essere confusa con la mia? Un bel dilemma, dato che, stando a ciò che dicono i TOS di OpenAI, entrambi siamo titolari di un pieno diritto di utilizzo, sebbene su cose che in realtà sono molto simili o identiche. Chi può fare causa a chi? Su questo per ora non ci sono risposte e bisognerà attendere della giurisprudenza specifica. Di certo, si creeranno delle situazioni poco simpatiche per gli editori e i content creator, ma divertenti per gli avvocati; e, come già detto, dovremo necessariamente rivedere la nostra percezione dei concetti di originalità e di novità che da tre secoli stanno alla base del diritto d’autore.
Uno sguardo anche alle sharing policy di OpenAI
Oltre ai Terms of service in senso stretto, il sito di OpenAI espone anche un altro documento di fondamentale importante: le “sharing policy”, letteralmente le “policy sulla condivisione”, cioè le modalità e le indicazioni che l’utente di OpenAI dovrebbe osservare nel momento in cui diffonde un contenuto generato con ChatGPT o DALL-E. Anche questo documento ha una valenza più che altro contrattuale e l’utente dichiara di averlo letto e accettato all’atto della registrazione. Anche questo documento ha la principale funzione di scaricare OpenAI da una serie di responsabilità che possono derivare dalla diffusione degli output (“Per mitigare i possibili rischi del contenuto generato dall’AI, abbiamo stabilito la seguente politica sulla condivisione consentita”).
Pur precisando che in generale è permesso pubblicare gli output ottenuti sui social media, così come trasmettere in diretta l’uso o fare dimostrazioni pubbliche con i prodotti di OpenAI, il fornitore del servizio chiede che vengano rispettate le seguenti condizioni:
Rivedere manualmente ogni “generazione” prima di condividerla o durante lo streaming;
Attribuire il contenuto al proprio nome o alla propria azienda;
Indicare che il contenuto è generato dall’AI in un modo in cui nessun utente potrebbe ragionevolmente non accorgersene o fraintenderlo;
Non condividere contenuti che violino la nostra content policy o che possano offendere gli altri;
Se si ricevono richieste dal pubblico per degli input, utilizzare il buon senso; non inserire input che potrebbero portare a violazioni della nostra politica sui contenuti;
Se si desidera assicurarsi che il team di OpenAI sia consapevole di un particolare risultato, si può inviare una email o utilizzare gli strumenti di segnalazione […].
Nel quarto punto, si fa dunque riferimento a un ulteriore documento (intitolato “Usage policies” e disponibile qui) in cui si definiscono quali usi del servizio sono espressamente vietati. Un classico esempio: chiedere a DALL-E di creare un’immagine pornografica o ancora peggio pedo-pornografica.
La proprietà intellettuale nei termini d’uso di Midjourney
Passiamo ora ai termini d’uso di un’altra piattaforma, meno nota, ma comunque molto utilizzata: Midjourney. Il paragrafo che ci interessa è il numero 4, che è intitolato “Copyright and Trademark” ed è strutturato in modo abbastanza allineato con i modelli che si trovano nei termini d’uso delle piattaforma social. In un’ottica chiaramente sinallagmatica, da un lato si stabiliscono quali diritti l’utente concede al service provider sugli input inseriti nel sistema AI e dall’altro lato si chiariscono quali diritti il service provider riconosce all’utente sugli output.
DIRITTI CHE CONCEDI A MIDJOURNEY
Utilizzando i Servizi, concedi a Midjourney, ai suoi successori e cessionari una licenza perpetua, mondiale, non esclusiva, sublicenziabile senza costi, esente da royalty, irrevocabile sul copyright per riprodurre, preparare opere derivate, visualizzare pubblicamente, eseguire pubblicamente, concedere in sublicenza e distribuire testi e immagini che inserisci nei Servizi o Asset prodotti dal servizio sotto la tua direzione. […]
Come detto, successivamente viene stabilito che l’utente rimane titolare di tutti gli output, ma con la precisazione che non potrà vantare alcun diritto su eventuali immagini realizzate da terzi fornite al sistema come input.
I TUOI DIRITTI
Fatto salvo quanto sopra stabilito, detieni tutti gli Asset che crei con i Servizi, nella misura consentita dalla legge attuale. Ciò esclude l’upscaling delle immagini di altri, che rimangono di proprietà degli autori degli Asset originali. […]
Curiosa è l’eccezione indicata poco dopo nello stesso paragrafo; vengono fatte alcune distinzioni tra categorie di utenti e – con mia grande sorpresa – si menziona anche una licenza Creative Commons.
La proprietà degli Asset che hai creato persiste anche se nei mesi successivi passi a un abbonamento di livello inferiore o cancelli il tuo abbonamento. Tuttavia, non sei proprietario degli Asset se rientri nelle eccezioni di seguito indicate.
Se sei un dipendente o un proprietario di un’azienda con un fatturato lordo annuo superiore a 1.000.000 USD e stai utilizzando i Servizi per conto del tuo datore di lavoro, devi acquistare un abbonamento “Pro” per ogni persona che accede ai Servizi per tuo conto al fine di essere proprietario degli Asset che crei. Se non sei sicuro che il tuo utilizzo qualifichi come per conto del tuo datore di lavoro, per favore supponi che lo sia.
Se non sei un Paid Member, non sei proprietario degli Asset che crei. Invece, Midjourney ti concede una licenza per gli Asset sotto la licenza Creative Commons NonCommercial 4.0 Attribution International License.
Concludiamo con un’avvertenza di rito: questo articolo ha uno scopo informativo e divulgativo. I documenti commentati sono più lunghi e complessi rispetto agli estratti che trovate qui. Inoltre è bene leggerli nella loro lingua originale (inglese). Quindi i lettori sono comunque tutti invitati a non fare affidamento solo su ciò che abbiamo scritto qui ma ad andare a verificare i documenti originali.
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L’autore è un avvocato, docente universitario e divulgatore che si occupa da vent’anni di diritto della proprietà intellettuale e diritto delle tecnologie digitali.
Sito web: https://aliprandi.org/. Twitter: @simonealiprandi
[Per volontà dell’autore, questo articolo è sotto licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International (CC BY-SA 4.0)]