Un editoriale pubblicato sul Corriere della Sera a firma di Galli della Loggia mette uno accanto all’altra Alcide De Gasperi con un parallelo solo in parte condivisibile. Cinque ragioni per cui non è possibile accostarli secondo Pino Pisicchio
Un pensato editoriale del professor Galli Della Loggia, lancia dalle colonne del Corriere una suggestione che sembra riconoscere una progressiva “democristianizzazione” della presidente Meloni, dopo – aggiungiamo noi – l’adesione conclamata al metodo Mattei, partigiano (demo)cristiano e santo patrono dell’Eni, nelle sue visite diplomatiche in area mediterranea.
L’argomentare di Galli della Loggia è incentrato sul quadro storico del 1948, che avrebbe somiglianze con quello attuale, in particolare per l’irrompere nella stanza dei bottoni dei cattolici, il polo escluso dall’Unità d’Italia fino all’avvento della Repubblica, così come escluso sarebbe il portato politico-culturale rappresentato da Meloni. Tra le altre ragioni l’editorialista sottolinea la capacità di leadership esercitata da De Gasperi sul suo partito e sul Paese, riscontrando eguali tracce nella presidente del Consiglio. L’articolo esprime altre considerazioni e poi anche dissimiglianze, ma ciò che interessa in questa nota resta la scelta del confronto tra le due personalità politiche e i contesti storici che le incorniciano. Un confronto che mi porta a dichiarare qualche breve dissenting opinion.
La prima: la leadership. La leadership di De Gasperi, sicuramente salda, si muoveva in un contesto storico proiettato verso un orizzonte di libertà, con l’inchiostro con cui era scritta la Costituzione non ancora asciugato come anche le ferite degli italiani dopo il fascismo e la guerra. Era una democrazia ritrovata, proiettata, viva nella nuova forma-partito, e veniva esercitata in modo plurale. De Gasperi era il primus inter pares in un partito di giganti che ne riconosceva l’autorevolezza morale e politica, ma che non avrebbe mai potuto tollerare una egemonia solitaria: non si dimentichi che persino il grande De Gasperi venne rimosso “democraticamente” e tra i sui più tenaci oppositori si trovò il mite Dossetti, protagonista nella Costituente, destinato a farsi prete. Non ci pare che eguale vento di libertà spiri nei partiti cesaristi di oggi, costruiti attorno alla figura del capo e poco turbati da adempimenti congressuali. La seconda. Quella degasperiana era una leadership non assistita dal “culto” della personalità: il medium più friendly, al netto della cartastampata, sarebbe stata la radio e la maggior parte degli italiani non avrebbe mai visto in faccia i beniamini politici. Vogliamo fare paragoni con l’oggi? Partiti personali, egemonie assolute, sovraesposizione mediatica fino allo sfinimento?
La terza. Nessun paragone possibile tra la durata dei partiti politici dell’epoca con la breve vita di quelli di oggi. De Gasperi costruì una forma-partito destinata a durare fino al 1994, per altri 46 anni con risultati che ad andar male superavano il 30 per cento. Fratelli d’Italia aveva il 4 e rotti per cento solo cinque anni fa, nelle elezioni politiche del 2022 il 26 e domani chissà. L’infedeltà elettorale e la fluidità sono la vera cifra di questo tempo e sarei molto prudente a scambiare l’effetto bandwagon attuale, ancorché assistito da un “sentiment” prevalente moderato, con una nuova epifania democristiana.
La quarta. De Gasperi si muoveva all’interno di un sistema di culture politiche, in cui l’elemento ideologico-identitario era dominante e costruiva muri e convergenze. La Meloni si misura col modello disegnato da Kirchheimer del “partito pigliatutto”, de-ideologizzato e che accoglie morbidamente tutte le pulsioni registrate dalla pubblica opinione attraverso i sondaggi. Questa è la forza della politica contemporanea ma anche la sua condanna: la sua fluidità è così forte da esporre sempre tutto allo squagliamento.
La quinta. Il De Gasperi del 1948 rappresentava il 44% di tutti gli italiani aventi diritto al voto. Meloni il 14,35%.
E, come diceva Totò, ho detto tutto.