Pubblichiamo un estratto della prefazione di Marta Dassù al libro “L’era della non-pace” (Bocconi University Press) del politologo britannico Mark Leonard, direttore e cofondatore dell’European Council on Foreign Relations
Il ciclo dalla globalizzazione al conflitto ha precedenti storici ben noti. Il punto (…) è che l’Europa pensava di esserne immune, immersa com’era in un sogno kantiano. La guerra della Russia in Ucraina – un’invasione di tipo imperiale che è subito diventata uno scontro molto più vasto attorno a interessi e sistemi di valori incompatibili – segna anche per questo un brusco risveglio. E mostra fino a che punto petrolio e cibo sono diventati armi della connettività. Qualunque sia l’esito finale, è probabile che la Russia resterà ai margini del vecchio Continente, che non si formerà un vero «ordine» condiviso paneuropeo e che la divergenza prevarrà. In questo caso, peraltro, non è stata l’interdipendenza di per sé a causare il conflitto in Europa. È stata, semmai, la volontà di Mosca di fermare il contagio del sistema democratico occidentale, per tentare di riaffermare una propria sfera di influenza geopolitica. Se questo era già evidente nel 2014, la seconda invasione russa nel febbraio 2022 ha prodotto un vero shock negli europei, a cominciare dalla Germania – dopo che l’annessione della Crimea era stata derubricata a incidente di percorso. L’interdipendenza energetica di tipo infrastrutturale, quindi più difficile da superare, si è rivelata di colpo come un cappio al collo: il gas russo si è trasformato in arma di ricatto e la UE (assieme alla NATO) ha fatto ricorso a pesanti sanzioni economiche oltre che ad aiuti militari diretti per consentire all’Ucraina di difendersi. È di conseguenza entrato in crisi un intero modello economico-industriale, chiaramente a trazione tedesca, imperniato sull’importazione di gas naturale a basso costo ma anche su una crescente interdipendenza con i mercati e le tecnologie cinesi, oltre che su spese per le difese «minimaliste»: in breve, una ricetta con tratti «euro-asiatici» che non poteva reggere alla rottura con Mosca e alla tensione crescente fra Washington e Pechino. La Germania, come paese-guida dell’Europa sul piano economico, aveva scommesso su una sorta di mercantilismo benigno, ma in fondo così anche l’Italia e in parte la Francia (con sforzi analoghi di coltivare i rapporti sia con la Russia sia con la Cina). La guerra in Ucraina, sommata alla competizione tecnologica fra Stati Uniti e Cina, ha invece dimostrato che economia e geopolitica non possono più essere separate. E che il modello industriale che aveva prevalso in Europa va ormai ripensato. Non basteranno, per farlo, gli annunci di una «svolta epocale», secondo le parole del cancelliere Olaf Scholz: serviranno scelte diverse – economiche, tecnologiche, di politica industriale e di sicurezza – che impatteranno sugli equilibri socio-economici dei paesi europei.
Il quesito è quale sia il possibile modello alternativo, o quanto il vecchio modello andrà adattato per essere reso compatibile con un’era di parziale divergenza globale. In linea teorica l’Unione europea come grande blocco commerciale e mercato unico ha parte delle condizioni per agire su scala mondiale e perseguire i propri interessi, fissando a tutela dei propri valori anche standard propri – che forse altri finiranno per adottare se saranno standard efficaci. Ma manca di altre condizioni: insieme a nuove regole del gioco (regole fiscali, aiuti di Stato ecc.), investimenti comuni in settori come l’energia, le nuove tecnologie (in cui la UE è a oggi relativamente penalizzata) e la difesa (in cui manca tuttora un solido consenso). L’Europa, spiega questo libro, deve riuscire a gestire il nuovo dilemma della connettività; ma il dilemma europeo resta in fondo lo stesso da molti anni.
Nel XXI secolo, ci ricorda Mark Leonard, gli strumenti di potenza che contano includono soprattutto tecnologie digitali, finanza, una valuta realmente globale, oltre che sistemi d’arma avanzati e munizioni. Sono le sfere in cui l’Europa deve proporsi di conseguire un peso vero. È l’obiettivo che a Bruxelles viene definito «autonomia strategica», e che soprattutto Parigi tende a declinare in termini di “sovranità” (energetica, tecnologica, sanitaria…). Fatta salva la parziale integrazione militare in ambito NATO, che nessuno si sente certo di mettere in discussione dopo il 24 febbraio 2022, sembra ovvio che la UE debba ridurre il proprio tasso di vulnerabilità e di dipendenza in alcuni settori strategici. Ma questo imporrà costi di cui essere consapevoli – con grandi investimenti necessari, pubblici e privati, nelle industrie ad alto valore aggiunto e nelle relative infrastrutture. Come finalmente si comprende più chiaramente, guardando per esempio alla questione energetica e ambientale, una UE più autonoma e più globale deve essere disposta a pagare il prezzo di una transizione strutturale. E il rischio, come di nuovo conferma la crisi energetica, è il backlash politico in caso di fallimento. Due buoni motivi per essere cauti con termini come «sovranità». Insieme al terzo: l’Europa della «non-pace» avrà comunque bisogno di un rapporto funzionante con gli Stati Uniti.
Come ci ricorda questo libro, guardare solo alle opportunità non è prudente, perché nessuna tecnologia (o tecno-utopismo) e nessuna ideologia potranno mai eliminare il rischio politico. Da questo punto di vista le democrazie sono forse più resistenti di quanto non si pensi. Mentre lo sono meno di quanto non si dica le «tecno-autocrazie», che hanno tratto grandi vantaggi dalla globalizzazione (è il caso della Cina) e che rischiano di essere fortemente penalizzate dal parziale de-coupling in atto.
(…) Il problema di fondo è come evitare di cadere di nuovo in un ciclo simile: speranze infondate, seguite da bruschi risvegli. Per questo è indispensabile cogliere fino in fondo i tratti dell’epoca che stiamo vivendo e agire per gestire razionalmente gli interessi europei. Il libro di Mark Leonard, che si chiude con alcune linee guida, potrà certamente aiutare a farlo.