Dopo il Covid e la crisi del trasporto marittimo, gli investitori stranieri hanno perso fiducia nella Cina come fabbrica del mondo e cercano nuove destinazioni per ridurre la dipendenza da Pechino. E le stesse aziende cinesi aprono succursali in Asia e America del Nord per avvicinarsi agli Usa, superare le restrizioni e diversificare le catene di approvvigionamento
Dopo la crisi del trasporto marittimo e la pandemia Covid-19, la Cina è stata funestata dal nearshoring. Il processo che accorcia le catene di approvvigionamento (che si chiama friendshoring quando si portano pezzi di produzione in Paesi amici in termini geopolitici), permette alle imprese di garantire la disponibilità di forniture e facilitare la distribuzione nel mercato. Ma nel caso dei cinesi, spostare la produzione fuori dal proprio territorio permette anche di aggirare molte limitazioni imposte dall’amministrazione americana.
Così, molte imprese hanno spostato la propria produzione dalla Cina in Vietnam, Cambogia, India e soprattutto in Messico, alle porte del mercato degli Stati Uniti. Con la stessa forza con cui è stata difesa la rigida politica zero Covid, adesso i funzionari del governo di Pechino difendono come priorità la crescita economica, aprendo a nuove strategie di mercato.
Il punto è che l’economia cinese ha registrato il ritmo più lento di crescita degli ultimi decenni e vive diverse difficoltà, dall’alto indice di disoccupazione giovanile alla crisi del settore immobiliare fino alla mancanza di risorse pubbliche che possono essere investite nello sviluppo.
Dopo avere imposto un controllo quasi assoluto sui potenti della tecnologia, attraverso una regolamentazione molto aggressiva (che ha portato a cancellare dalla scena pubblica personaggi noti come Jack Ma), adesso la Banca centrale di Cina ha annunciato una diminuzione della sorveglianza su queste imprese e l’eliminazione progressiva delle restrizioni ai grandi prestiti per i promotori immobiliari.
Il cambio di atteggiamento però non convince ancora pienamente. Giganti come Apple stanno cercando urgentemente nuovi luoghi dove poter produrre, al di fuori dalla Cina. Due settimane fa ha comunicato il piano di espandere al 25% la produzione dei suoi prodotti in India. Piyush Goyal, ministro del Commercio indiano, ha spiegato che si tratta di un cambiamento per evitare la dipendenza dalla Cina in seguito alle interruzioni nella produzione nel 2022. In questo scenario l’India ha un grande potenziale come hub di produzione globale. Anche Foxconn ha aperto in India.
Xiang Songzuo, economista cinese ed ex funzionario della Banca Popolare di Cina, ha spiegato al New York Times che più che un cambio della strategia imprenditoriale della leadership di Pechino siamo di fronte ad un cambio di linguaggio per combattere l’inattività economica. La Cina ha bisogno di più capitale di investimento dalle imprese private, per avere più contratti e più introiti fiscali, e per questo ha deciso di tranquillizzarle. Ma la tensione resta perché la Cina vuole comunque avere il controllo e le restrizioni sul mercato esistono ancora.
Per Jacob Rothman, co-direttore esecutivo di Velong Enterprises, una fabbrica di attrezzature per le cucine con sede a Canton, le prospettive economiche in Cina non miglioreranno finché ci sarà lo scontro politico tra Pechino e Washington. Per questo motivo, l’azienda – che ha circa 1000 dipendenti cinesi – ha deciso di aprire altre fabbriche in Vietnam e Cambogia. L’obiettivo è quello di rassicurare i clienti che temono la dipendenza dalla Cina, “una preoccupazione che è diventata sempre più forte” negli ultimi tempi.
Questo spiega perché molte imprese cinesi stanno investendo aggressivamente in Messico, cercando di sfruttare l’accordo commerciale che questo Paese ha con Stati Uniti e Canada (Nafta). Produrre sul territorio messicano permette alle imprese cinesi di etichettare i prodotti “Made in Mexico” e portarli – via terra – con facilità verso il vicino a nord.
Soltanto la regione messicana Nuevo León ha ricevuto 7 miliardi di dollari in investimenti stranieri dal 2021. Circa il 30% viene da società cinesi. I parchi industriali nel nord del Messico cominciano a non avere più spazio. La vicinanza con gli Usa del Messico e di altri Paesi del Centro America e dell’area caraibica, facilita il nearshoring.
In Messico c’è una vera e propria euforia, molto simile a quella vissuta per il Nafta negli anni ’90. Grazie alla rilocalizzazione, si potrebbero toccare livelli di crescita mai visti negli ultimi 30 anni.
Non tutti gli entusiasmi sono ben riposti. Jorge G. Castañeda, ex segretario per i Rapporti esteri del Messico, e professore della New York University, ha scritto sul sito della Cnn di fare attenzione all’euforia per l’interesse dei cinesi (e non solo) nel produrre in Messico.
Tante imprese americane, europee o giapponesi, attualmente presenti in Cina, rifletteranno bene sulla possibilità di lasciare quel Paese. “Molti esportano in altre regioni del mondo – sottolinea Castañeda – ma vendono anche in Cina, primo o secondo mercato del mondo, a seconda del prodotto. Sebbene non ci siano minacce da parte delle autorità locali, il rischio di perdere le vendite all’interno della Cina sarà senza dubbio un fattore da prendere in considerazione”. Forse per questo l’opzione più scelta è quella di aprire succursali in altre parti del mondo, ma senza abbandonare quelle in Cina.
Castañeda conclude che il nearshoring è una realtà, che per diversi motivi la Cina sta perdendo quote di mercato negli Stati Uniti, ma si tratta di una realtà relativa che si distribuisce in diversi Paesi, che vive ostacoli importanti e che in alcun modo può diventare l’unica strategia di sviluppo per il Messico