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L’onda verde delle rinnovabili. La fotografia di La Camera (Irena)

Francesco La Camera

Alla Cop28 di Dubai il mondo verificherà il progresso delle promesse di Parigi. Tra decarbonizzazione e sicurezza energetica, aumentano sforzi e progetti per generare energia pulita. Ma bastano? Formiche.net lo ha chiesto a Francesco La Camera, direttore generale dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili

C’è un italiano alla guida dell’ente intergovernativo più importante al mondo nel campo delle rinnovabili. A metà gennaio i membri dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (Irena) hanno confermato Francesco La Camera (che arriva da trent’anni di esperienza nei settori del clima, della sostenibilità e della cooperazione internazionale) per un secondo mandato come direttore generale. La scelta riafferma la fiducia nella sua leadership in un periodo che si sta rivelando decisivo per la sfida climatica – tra investimenti in crescita ma obiettivi ancora distanti, scossoni geopolitici e la corsa generale verso l’autosufficienza energetica. Così Formiche.net lo ha raggiunto per un’intervista a tutto tondo.

Cos’è e cosa fa Irena?

Si tratta di un’agenzia intergovernativa a carattere globale, con base ad Abu Dhabi, costituita tramite un accordo internazionale approvato dai Paesi membri, che al momento sono 168 (più l’Ue), mentre altri 16 sono nella fase di accesso. L’attività di Irena è indirizzata a potenziare il ruolo delle rinnovabili nel sistema energetico globale: lo fa attraverso le sue analisi, i suoi rapporti, e il supporto diretto che diamo ai Paesi membri nella pianificazione e nella definizione delle strategie energetiche. Più recentemente, anche la facilitazione dei progetti, ossia mettere in contatto gli attori con le risorse finanziarie: il lavoro di supporto alla programmazione ci consente di trasformare le idee in interventi concreti sul terreno.

Da dove arrivano i finanziamenti, e come li gestite?

Irena ha un bilancio ripartito tra vari Paesi secondo la scala dell’Onu e approvato ogni due anni. Vive anche di contributi volontari. Sul lato della facilitazione operiamo attraverso iniziative come il Climate Investment Platform, lanciata insieme al Programma di sviluppo delle Nazioni Unite, SEforALL, una ong globale riconosciuta dall’Onu, in collaborazione con il Green Climate Fund e la Energy Transition Acceleration Financing Platform. Attraverso queste piattaforma Irena ha acquisito oltre 350 partner, incluse grandi banche multilaterali e di sviluppo, e ha aperto agli enti privati e pubblici. Tutto ciò avviene soprattutto attraverso la presentazione diretta da parte nostra: un esempio è il primo Investment Forum, che abbiamo tenuto al G20 di Bali. Finora abbiamo raccolto più di un miliardo di dollari e contiamo che la cifra salga ancora, lavoriamo per avere una lista di progetti che raggiungano il finanziamento prima della prossima Cop28.

Che ruolo avrete alla Conferenza di Dubai?

Il compito principale di Irena è provvedere a dare supporto: rapporti sui costi, sul lavoro, i nostri outlook sulla transizione, sia regionali che domestici. Abbiamo supportato più di 80 Paesi nella loro presentazione degli NDCs (i contributi climatici nazionali, ndr) alla Cop di Glasgow nel 2021. Per quanto riguarda la Cop28, quest’anno ci sarà lo stock-taking, la prima valutazione formale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per il cambiamento climatico (Unfccc) sullo stato dell’attuazione degli impegni presi alla Conferenza di Parigi nel 2015. Come agenzia intergovernativa non siamo parte del processo negoziale tra Paesi, ma abbiamo iniziative di supporto alla lotta al cambiamento climatico– come l’Alleanza per la decarbonizzazione industriale, quella per lo sviluppo dell’eolico offshore, quella per il nesso tra cibo acqua ed energia rinnovabile. Con il nostro rapporto globale contribuiamo anche al processo di stock-taking, forniamo i numeri per rispondere alla domanda: siamo o non siamo in linea agli accordi di Parigi?

Lo siamo?

No. Infatti proviamo a descrivere le modalità per chiudere il divario tra dove siamo e dove dovremmo essere. Il percorso che stiamo seguendo è quello corretto e il mondo si muove verso un nuovo sistema energetico dominato dalle rinnovabili, con il complemento dell’idrogeno e l’uso sostenibile della biomassa; non c’è alcun dubbio, il processo è irreversibile. Il problema che abbiamo di fronte è la velocità e la scala di questa trasformazione, che non sono coerenti con gli obiettivi di Parigi. Potremmo dire che ci arriveremo, ma in ritardo, quindi non contrastando in maniera efficace gli impatti catastrofici del cambiamento climatico.

Può quantificare il divario?

Nel 2022 l’81% della capacità di generazione installata ex novo era rinnovabile, pari a 260 gigawatt. Ma per poter sperare di metterci in linea con gli accordi di Parigi dovremmo arrivare a installare 800 GW ogni anno. Fino al 2030 ci vorrebbero 5,7 mila miliardi di investimenti, a livello globale, solamente sugli impianti rinnovabili, sulle infrastrutture, sull’efficienza energetica e su tutto ciò che è legato allo sviluppo. Abbiamo ritardato l’azione per anni, ma più andiamo avanti e più diventerà difficile – e costoso – portare avanti la transizione in tempi realistici.

Assieme alla sua nomina Irena ha approvato la propria strategia quinquennale 2023-2027. Ce la può distillare?

La novità rispetto al piano precedente è che tutti i Paesi ora riconoscono il ruolo determinante delle rinnovabili anche nella costruzione della sicurezza energetica. La crisi ucraina ha reso ancora più evidente che un sistema energizzato centralizzato e basato sui combustibili fossili ha determinato una forte dipendenza, a cui l’80% dei Paesi sono soggetti, con tutte le conseguenze del caso. Da qui la necessità di puntare su un sistema decentralizzato, sul ruolo delle rinnovabili non solo per assicurarsi l’energia pulita ma anche e soprattutto per uscire dalla dipendenza energetica.

Lei è l’unico italiano eletto dagli Stati come capo di un’organizzazione internazionale. All’alba del secondo mandato, come vede il futuro dell’Irena?

In questi quattro anni siamo riusciti a rendere ancora più riconoscibile il profilo dell’agenzia. Riscontriamo interesse crescente per le nostre attività e siamo riusciti a far passare il messaggio – che adesso è mainstream – dell’urgenza di costruire un nuovo sistema energetico basato su rinnovabili, idrogeno verde, biomassa. La nostra visione ora accomuna tutti, la nostra capacità di supporto e pianificazione ci ha reso ancora più rilevanti, specie nell’indirizzare e individuare le soluzioni migliori anche in termini di investimenti. Lavoreremo per costruire la narrativa necessaria a chiudere il divario, e a questo ci dedicheremo nel prossimo Transition Outlook (in uscita a fine marzo) che lanceremo durante l’Energy Transition Dialogue a Berlino.

Che ruolo ha l’Italia nel mosaico della transizione energetica?

Naturalmente, per via del mio ruolo, non posso intervenire sulla direzione di un singolo Paese. Mi limito a dire che l’Italia, membro del G7, sulle rinnovabili ha fatto tanto nel corso degli ultimi anni. Anche se ultimamente l’impegno si è un po’ affievolito: pesa il sistema delle autorizzazioni, che ha rallentato gli investimenti. Spero che venga superato, so che ci sono sforzi per snellire le procedure. Anche perché il Belpaese può diventare un importante punto di snodo nel Mediterraneo, un contatto tra Nord Africa ed Europa sui versanti dell’idrogeno verde e della trasmissione di elettricità pulita.

Passiamo ai temi specifici. In alcuni mercati (come quello statunitense) si percepisce una resistenza crescente agli investimenti targati Esg.

È una fotografia parziale. Bloomberg ha appena scritto che gli investimenti nelle rinnovabili hanno raggiunto quelli nei combustibili fossili per la prima volta nella Storia. Gli stessi Usa stanno spingendo sulle tecnologie verdi, pur privilegiando le proprie industrie: da qui l’idea di un fondo sovrano europeo per bilanciare l’iniziativa statunitense. Il modo migliore è sempre guardare ai dati: la capacità rinnovabile installata continua ad aumentare per il semplice motivo che è più economico. Dunque non si può parlare di controtendenza, semmai di contrattempi: avvertiamo che in alcuni casi gli investimenti possono tradursi in stranded assets (investimenti dispersi, ndr); c’è chi, cogliendo elementi di difficoltà generati dalla crisi ucraina, pensa di poter risolvere le questioni di sicurezza energetica ricorrendo ancora agli idrocarburi. A mio modo di vedere questa strategia non porterà molto lontano, e al contempo non ci mette in condizione di accelerare e aumentare la portata della transizione.

La spinta verso le rinnovabili sta evidenziando i costi, in termini ambientali ed economici, delle materie critiche necessarie per gli impianti rinnovabili.

È un versante su cui stiamo lavorando come agenzia. Intanto occorre considerare che anche altri settori fanno uso di queste materie; è vero che l’accelerazione della transizione comporta un aumento delle frizioni e dei prezzi, ma occorre guardare al settore minerario in tutta la sua complessità. Non riteniamo che sia una barriera insormontabile; serve attenzione, ma i problemi sono superabili con le giuste politiche, che consentano allo sfruttamento minerario di avvenire entro i tempi determinati, le regole di salvaguardia ambientale, e il rispetto dei diritti umani. Alla fine si parla di terre rare che rare non sono; dobbiamo ricondurre i processi di escavazione e raffinazione a logiche di sostenibilità. E serve mantenere alta l’attenzione sulle tecnologie, prediligendo quelle che non facciano uso di minerali o utilizzino quelli già disponibili. Infine, serve rafforzare le politiche di riciclo, di economia circolare. In sintesi, questo non è un problema che mette a rischio la transizione.

L’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) ha identificato il nucleare come un alleato importante per raggiungere la neutralità carbonica e garantire elettricità continua, baseload. Come giudica questa tecnologia?

A Irena non ci occupiamo di nucleare perché i Paesi membri non lo hanno riconosciuto come una fonte rinnovabile. Mi sembra un fatto assodato che la comunità internazionale debba compiere uno sforzo straordinario in questo decennio per non superare il grado e mezzo di riscaldamento globale (l’obiettivo degli Accordi di Parigi, ndr). Se tutti concordano su questo, credo che possano concordare anche sul fatto che l’energia nucleare non è utile allo scopo. Nessuno parla di spegnere le centrali esistenti, naturalmente, ma costruire un nuovo impianto comporta oltre 12 anni – ponendolo fuori dall’orizzonte temporale utile. E serve considerare i costi, perché il nucleare non è un’opzione più conveniente rispetto alle rinnovabili. Queste conclusioni mi fanno pensare che come soluzione non sia utile alla lotta al cambiamento climatico, che va affrontato con le tecnologie che già abbiamo e la continua innovazione. Poi sull’orizzonte c’è la fusione, forse nel 2040 vedremo il primo impianto a carattere industriale. Questa può essere una prospettiva… ma la lotta decisiva al riscaldamento globale è da qui al 2030.


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