Possiamo definire “civica” la sua spiritualità, che restava pienamente compatibile con il ministero presbiterale di Sturzo, senza tuttavia rassegnarsi a rimanere intimistica o levitica, esclusivamente interna a un orizzonte sacrale. Voleva radicarsi sul piano sociale, respirando l’afflato della passione civile. La riflessione di don Massimo Naro
Si terrà domani a Palermo, presso il Camplus College, alle ore 18.30, un incontro di studio sull’ispirazione cristiana dell’impegno socio-politico di don Luigi Sturzo. Forse, più che di ispirazione cristiana sarebbe corretto parlare, nel suo caso, di ispirazione evangelica e di profondità spirituale. Il pensiero e l’azione politica di Sturzo, difatti, si mantennero sempre nell’orizzonte di quella che abbiamo imparato proprio da lui a chiamare “aconfessionalità”. E furono sempre sorretti da un vigoroso nerbo spirituale, oltre che da una solida base culturale e da una versatile attitudine intellettuale.
Del resto, quando si dice “cultura” – al livello di personalità come Sturzo – si dice anche “spiritualità”, questa intesa come lo stesso don Luigi la definiva in una sua pagina ora inserita in Problemi spirituali del nostro tempo: «Chiamiamo spiritualità i bisogni dell’anima, in quanto bisogni dello spirito nella sua integrità, dell’intelletto che ha sete di verità, della volontà che ha sete di bene, e della coscienza che sintetizza e riflette i due principi dell’intelletto e della volontà nell’unità dello spirito». I termini di questa formulazione riecheggiano le discussioni che Sturzo aveva tante volte intrattenute col fratello vescovo di Piazza Armerina sul sistema di pensiero che allora chiamavano «neosintetismo». Il quale, però, non era una mera teoria filosofica, astratta e lontana dal vissuto. Al contrario, si trattava – per i due fratelli Sturzo – di valorizzare al massimo il vissuto concreto (storico, sociale, artistico, anche economico e politico), rendendolo trasparente di un realissimo – ancorché inevidente – sfondo soprannaturale, costitutivo delle più sottili fibre dell’esistenza umana.
Era una spiritualità integrale, nel senso di olistica (totale, omnicomprensiva, che assume in sé tutto e non esclude nessuna dimensione umana, neppure la più apparentemente profana, giacché – come affermavano i Padri della Chiesa al tempo del concilio di Nicea – ciò che non viene assunto dal Verbo divino non può essere redento). Dunque una spiritualità coerente alla logica dell’incarnazione, secondo la quale vero è – come insegnava già san Paolo nel suo epistolario – che bisogna distillare lo spirito dalla lettera, o lo spirito dalla carne, ma è nondimeno vero che biblicamente lo Spirito è nella lettera, e cristologicamente non si dà lo Spirito se non in quanto incarnato. Quando, ormai negli ultimi anni della sua vita, nel titolo di un suo articolo apparso il 2 marzo 1957 su Il Popolo, Sturzo si chiederà se l’«uomo politico» possa essere «cristiano integrale», si riferirà appunto alla possibilità di una spiritualità non più scissa tra azione e contemplazione, o tra le opere di carità e le pratiche di devozione, o tra la solitaria meditazione sulla salvezza della propria anima e il pubblico dibattito su come realizzare il bene comune.
Sottolineando questo aspetto della vicenda sturziana non intendo attribuire a Sturzo alcuna tendenza politica integralistica: egli non nutrì l’ideale di una società confessionalmente concepita, o di un sistema economico confessionalmente organizzato, o di una struttura scolastica confessionalmente gestita, o di un partito confessionale e, ancor meno, di uno Stato confessionale, magari fondato sulla restaurazione di modelli ancien régime di governo, autoritari e persino assolutistici. Questa sua attenzione a evitare le derive integralistiche in ogni ambito della sua poliedrica attività fu sostenuta proprio dalla sua sensibilità credente “a tutto tondo”, capace di non escludere nessuna dimensione dell’essere e dell’agire umano. Soprattutto disposta a non escludere nessuno, sia che si trattasse di laici sia che si trattasse di credenti.
La radice spirituale di queste intuizioni faceva capolino in un rimando al «Vangelo nascosto in petto» che Sturzo fece in un suo discorso del dicembre 1918, ormai alla vigilia della fondazione del Partito Popolare Italiano, che difatti avrebbe visto la luce il 18 gennaio 1919 col famoso Appello agi liberi e forti. Era una prospettiva che risaliva alla storia del cristianesimo primitivo e implicitamente, mi pare, nello Scritto a Diogneto, che proprio in quegli anni veniva tradotto e introdotto in Italia da Ernesto Buonaiuti. Echi di quest’antico documento patristico sembrano ricorrere, del resto, in tante altre pagine di Sturzo. Il quale, nel 1945, così scriveva: «La funzione del cittadino è delicata nel mondo moderno; non è permessa l’evasione dal proprio dovere […]; noi parleremo la lingua del tecnico se siamo tecnici, dell’uomo politico se siamo politici, del cittadino sul piano nazionale, dell’uomo universale sul piano internazionale, del cristiano sul piano morale e religioso». E già nei primi del Novecento scriveva: «[…] si guarda coll’occhio sinistro questa terra che ogni giorno ci sfugge, col destro si guarda il cielo che ogni giorno ci si avvicina». Chi ha letto lo Scritto a Diogneto e ne conosce il messaggio – secondo cui i cristiani sono chiamati a essere come l’anima del mondo e a vivere la paradossale cittadinanza del cielo mentre non smettono d’essere cittadini della terra – sa ritrovarne il senso, e talvolta persino la lettera, nelle parole di Sturzo.
Emerge qui il senso dell’aconfessionalità. Secondo Sturzo, i cristiani impegnati nell’agone politico rimangono consapevolmente e convintamente tali, ma senza divise, senza etichette, senza distintivi, parlando – potremmo aggiungere, parafrasando lo Scritto a Diogneto” – la stessa lingua degli altri soggetti politici, incontrandoli sul loro stesso campo d’azione, nelle scuole, nelle fabbriche, nelle zolfare, nei campi agricoli, nelle cooperative e nei consorzi, nei consigli comunali e, finalmente, in Parlamento. L’aconfessionalità, perciò, non era sospensione dell’atto di fede, né tanto meno rinuncia al Vangelo, bensì presa di posizione: non più nel tempio o nei suoi paraggi (le famigerate sagrestie, da cui papa Leone XIII nell’enciclica “Rerum novarum” aveva detto di dover uscire una buona volta), ma in piazza e, quindi, in seno alla città degli uomini.
Possiamo definire “civica” questa spiritualità, che restava pienamente compatibile con il ministero presbiterale di Sturzo, senza tuttavia rassegnarsi a rimanere intimistica o levitica, esclusivamente interna a un orizzonte sacrale. Sostenuta da una salda consapevolezza samaritana, tendeva piuttosto a zampillare da una fontana posta al centro della città. Voleva radicarsi sul piano sociale, respirando l’afflato della passione civile. In un articolo dell’11 gennaio 1959, l’anno della sua morte, Sturzo illustrava compiutamente il senso della spiritualità civica di cui era stato testimone in prima persona: «Il ‘civis romanus sum’ di san Paolo, rivendicazione di diritto e di dignità, nulla negando del suo giudaismo di origine né della sua fede cristiana, dovrebbe essere per ognuno di noi il ‘civis italianus sum’, e domani anche il ‘civis europaeus sum’, senza togliere nulla alla nostra concezione civile, politica e religiosa, al nostro essere individuale nella sua completezza e nella sua realtà».