A Giorgia Meloni, impegnata direttamente in numerose delicate partite nazionali e internazionali, servirebbe come il pane un Tatarella che dirigesse l’orchestra parlamentare di FdI e le parallele nomenklature regionali nell’esclusivo interesse di Palazzo Chigi e dell’intero governo. Il commento di Giuseppe De Tomaso
Di solito nelle democrazie occidentali il primo ministro è anche il capo del partito cardine della maggioranza di governo. Invece, per decenni in Italia, prima della correzione (in senso maggioritario) del nostro sistema elettorale, è accaduto di rado che la premiership e la leadership confluissero nella medesima figura. Nemmeno Alcide De Gasperi (1881-1954) fu contemporaneamente presidente del Consiglio e segretario della Dc. Ci provarono Amintore Fanfani (1908-1999) e Ciriaco De Mita (1928-2022) a sperimentare il cosiddetto modello Westminster, ma il loro doppio incarico durò pochi mesi, fermato dalle manovre di corridoio dei rivali interni. A partire dal 1994 (primo appuntamento nell’urna con le nuove regole del voto), lo schema cambiò, ma non del tutto. Solo Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, e adesso Giorgia Meloni riusciranno a conservare insieme le redini del governo e del partito di provenienza. Tutti gli altri no.
Facciamo il punto. Se il doppio incarico ha il pregio di bloccare sul nascere i tradizionali mal di pancia dei capicorrente di partito nei confronti del governo, ossia se il doppio incarico è in grado di bloccare, o frenare, da subito le imboscate, le invidie e le ambizioni di tutti gli aspiranti ministri in lista d’attesa, lo stesso doppio incarico ha – storicamente – il difetto di non garantire il controllo costante, da parte del principale, delle decisioni e dei comportamenti (spesso discutibili) di cui si rendono artefici quei vispi colonnelli interni quotidianamente a caccia di riscatto, potere e visibilità. De Gasperi, il cui straordinario prestigio gli assicurava il comando effettivo della Dc, pur non essendone il segretario ufficiale, trovò in Guido Gonella (1905-1982) un perfetto esecutore e un leale luogotenente, del tutto immune da colpi di testa o da tentazioni parricide (politicamente parlando, si capisce), tanto è vero che lo stesso Gonella, animo puro provvisto di profilattica autoironia, amava ripetere: “Sono il segretario della Dc, ma soprattutto sono il segretario di De Gasperi”).
E comunque in Italia il doppio incarico non è mai una polizza assicurativa, onnicomprensiva e blindata, per la stabilità dell’esecutivo e per la serenità del premier in carica. Se ne sta accorgendo giorno dopo giorno anche l’attuale presidente del Consiglio. Giorgia Meloni, com’è giusto che sia, è super-concentrata nell’attività di governo e non ha di sicuro il tempo di coordinare in prima persona le iniziative, gli interventi dei parlamentari e dei dirigenti di Fratelli d’Italia. Le servirebbe un Gonella o, per pescare tra le figure del passato più in sintonia con la sua biografia di destra, un redivivo Giuseppe Tatarella (1935-1999).
Del resto, se Gianfranco Fini divenne, nel Msi, prima il successore di Giorgio Almirante (1914-1988) e successivamente il leader della svolta moderata poi sfociata in Alleanza Nazionale, il merito dell’operazione va attribuito quasi esclusivamente a Tatarella. Quando scendeva in campo, Pinuccio giocava simultaneamente da regista e da difensore, lasciando a Fini il ruolo di centravanti. Copriva le spalle al segretario, smistava gli assist al resto della squadra. Faceva, nel Berlusconi I, il ministro dell’Armonia non soltanto nella formazione ministeriale. Anche Alleanza Nazionale, cioè Fini, si giovava del carisma e dell’abilità di Tatarella nello sventare, tra i suoi, fughe in avanti e azioni solitarie dettate dall’istinto del momento.
Tatarella non amava le luci della ribalta. Era refrattario ai salotti tv e al presenzialismo mediatico. Ma tutti, alleati e avversari, sapevano che le sue quotazioni, nel borsino della politica, erano inversamente proporzionali alle apparizioni sullo schermo. Tatarella contava, contava molto di più di quanto sembrava ai non addetti ai lavori. Parlava poco, ma quando parlava, lasciava il segno, meglio di un aratro sul terreno. Erano leggendarie le sue reprimende contro gli eletti che non azzeccavano un’intervista, così come erano generosi gli apprezzamenti (pochi) a beneficio di chi non sbagliava un aggettivo.
Ecco. A Giorgia Meloni, impegnata direttamente in numerose delicate partite nazionali e internazionali, servirebbe come il pane un Tatarella che dirigesse l’orchestra parlamentare di FdI e le parallele nomenklature regionali nell’esclusivo interesse di Palazzo Chigi e dell’intero governo. Servirebbe un Tatarella che smussasse alla sua maniera le impuntature dei fratelli più impazienti e impenitenti. Servirebbe un Tatarella che imponesse la disciplina di gruppo e la facesse rispettare, senza deroghe e indulgenze. Servirebbe un Tatarella che seguisse minuto per minuto tutte le uscite pubbliche di senatori e deputati e, all’occorrenza, compilasse le pagelle per tutti, bravi e incapaci. Servirebbe un Tatarella che facesse da rete protettiva, per la presidente Meloni, sul piano interno (partito e coalizione) e che facesse da rete pedagogica, sul piano parlamentare, per gli spiriti meno allenati alle responsabilità e alle posture richieste alla forza portante del governo.
Se le intemperanze delle seconde linee costituivano un pericolo mortale ieri, figuriamoci oggi, nell’era della spettacolarizzazione assoluta della politica. Infatti. Ogni giorno porta la sua pena. Ecco perché, per calmare gli animi, servirebbero i Tatarella. Se ci fosse stato Pinuccio in aula, quasi certamente Giovanni Donzelli avrebbe pronunciato un altro discorso, più pacato, più istituzionale, sull’anarchico Cospito, sul 41 bis e sul Pd. E la Meloni si sarebbe ritrovata con una gatta in meno da pelare.
Purtroppo i tipi alla Tatarella, renitenti al proscenio e residenti dietro le quinte, sono in via d’estinzione. Perché, oggi, l’ambizione e la vanità sono una miscela irrinunciabile. Per chiunque. Di conseguenza nessun premier, a iniziare da Giorgia Meloni, potrebbe mai sperare di fare affidamento su uno scudiero di livello, in grado di preservarla, senza secondi fini, dagli scivoloni (a volte involontari) di coloro che gli stanno vicino. Che, notoriamente, sono assai più insidiosi, in politica, di coloro che stanno di fronte.