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Terremoto e terremotati. La lunga storia catastrofica dell’Italia raccontata da D’Angelis

La speranza è che le immagini struggenti della tragedia dei turchi e dei siriani riesca a farci capire che gli assassini non sono i fenomeni naturali, piuttosto il modo spregiudicato in cui non li fronteggiamo e buttiamo al vento i progressi eccezionali dell’architettura, dell’ingegneria, della sismologia, della geologia e di tanta formidabile tecnologia made in Italy che crea tanta sicurezza, ma (per ora) solo nel resto del mondo

Qual è la lezione dell’apocalittico sisma di magnitudo 7,8 tra Turchia e Siria con un conto di vittime e di danni che sarà spaventoso? La prima è che anche noi italiani, pur colpiti dalla sindrome della smemorializzazione con quell’istintiva rassegnazione al peggio che dopo pochi giorni da eventi terribili fa rimuovere completamente cause ed effetti, siamo un popolo di terremotati, e tra i più colpiti del pianeta.

Potremmo risalire anche molto indietro nel tempo, all’elenco sterminato di tragedie della nostra terrificante storia sismica, a volte peggiori delle peggiori guerre dovuta certo alla nostra particolare geologia, orografia e morfologia ma anche all’esposizione elevatissima al rischio sismico amplificata a dismisura dalla “mano dell’uomo” che ci vede come il Paese che ha inventato l’ingegneria e l’architettura antisismica, ma il più in ritardo nella loro applicazione e con aziende e tecnici contesi e ingaggiati nelle città del Giappone, California, Turchia, Iran, Nuova Zelanda.

Non riusciamo a modificare il nostro approccio catastrofico. A smaltire l’eredita della nostra storia culturale quando i primi italici avevano tutto il diritto di scaricare le responsabilità della “terra tremante” sul primo mito che poteva venire in mente e che li colpiva e poi spariva come un’anguilla metafisica, che all’improvviso poteva distruggere e uccidere senza misericordia. Avevano tutto il diritto di affidarsi alla potenza della religiosità che in fondo è stata la prima risorsa dell’animo umano per non cadere nella disperazione nel tempo dell’ignoranza delle conoscenze. Al grande etnologo e antropologo Ernesto De Martino, dobbiamo l’interpretazione delle catastrofi negli antichi ai quali era concesso un altro mondo virtuale, come rifletteva anche il diciassettenne Giacomo Leopardi nel suo strabiliante “Saggio sopra gli errori popolari degli antichi”, con un repertorio di “aneddoti e false convinzioni diffuse nell’infinita immaginazione umana”, insomma un bel catalogo delle “tossicità delle superstizioni”.

Ma se Madre Natura fa semplicemente il suo corso, così come le placche tettoniche continueranno nei loro micromovimenti determinando condizioni di sforzo e accumuli di energia che scaricano in superficie con scosse telluriche in una sequenza ciclica, governata da leggi biologiche ineluttabili, noi italiani abbiamo ereditato la consuetudine dell’aggrapparsi al fatalismo oscuro e medievale, dello scarico delle colpe su mandanti mitici, e quella passività che continua ad illuderci che per fermare le forze terribili della natura bastino scongiuri, dita incrociate, toccatine di ferro, ferri di cavallo, cornetti di corallo, zampe di coniglio, “l’adda passà a nuttata”. L’eredità del fatalismo ha privato tanti territori fragili di opere e interventi di prevenzione per fermare o mitigare eventi che si ripetono da che mondo è mondo.

Le proiezioni sul numero di vittime del terrificante scenario di morte tra Turchia e Siria indicano diverse migliaia di persone uccise dai crolli, forse circa 30.000. Una carneficina spaventosa ma di fronte alla quale vale la pena riattivare la nostra memoria sismica.

Era l’11 gennaio del 1693, una domenica, quando alle 9 del mattino la Penisola fu colpita da una scossa di magnitudo 7,4 Richter, la più potente della storia d’Italia che fece tremare il Sud con immani devastazioni cui si aggiunse un mostruoso maremoto e morirono, secondo i dati ufficiali, oltre 54.000 siciliani. Un’altra scossa magnitudo 7,1 Richter colpì i siciliani alle 12.50 del 5 febbraio 1783, seguita da tre scosse in sequenza che fecero scempio di 180 centri abitati e nuova carneficina con 60.000 morti ufficiali. Il 13 gennaio 1915, alle 7.53, la scossa interminabile abbatté la Marsica con un 7,0 Richter e distrusse ogni costruzione e lasciò l’agghiacciante cifra di oltre 30.000 morti, un quarto della popolazione. Accadde solo 7 anni dopo l’“l’inferno in terra” che arrivò alle 5,21 del 28 dicembre 1908, con un nuovo sisma che devastò Calabria e Sicilia. Fu il terremoto dei terremoti, un 7.1 della scala Richter che in 37 secondi provocò una delle più grandi catastrofi della storia umana, l’ecatombe con un numero di vittime tra i più alti della storia mondiale: oltre 120mila. Fu talmente distruttivo da spingere il sismologo Giuseppe Mercalli ad aggiungere altri due gradi alla sua già impressionante scala macrosismica, portandola al dodicesimo. Colpì senza pietà, la “sventurata Messina”, Reggio e decine di città e paesini tra Scilla e Cariddi. Ma dopo il terremoto accadde qualcosa di terrificante. Tanti sopravvissuti di Messina furono arsi vivi da vampate di fuoco per il gas che si sprigionò dalle tubature squarciate che il vento spingeva sulle macerie. Altre migliaia, fuggiti in cerca della più naturale delle salvezze verso il mare, furono inghiottiti da quattro colossali tsunami sulle coste dello Stretto con onde dai 6 ai 12 metri di altezza, risucchiando nei gorghi tutti gli ammassati sulle rive.

Quello dello Stretto per noi italiani doveva essere, e poteva essere, il terremoto-spartiacque tra lasciar fare tutto alla natura e provare a difendersi dalla natura. Lo Stato monarchico, infatti, recuperò le prime norme antisismiche del mondo che furono emanate a Napoli da Ferdinando IV dopo il terremoto del 1783, e che trasformarono la ricostruzione del Sud in un laboratorio mondiale di buona pianificazione urbanistica e di case sicure con le prime “baracche” antisismiche del mondo. Per rafforzare l’edilizia in tutto il Regno, con il Regio decreto del 18 aprile 1909 n.193 vararono “Norme tecniche obbligatorie” obbligando le case ad avere “una ossatura in legno, di ferro, di cemento armato o di muratura armata, muratura squadrata e listata, telai, cordoli, sbalzi, strutture non spingenti”. Escludevano edificabilità “in siti inadatti come terreni paludosi, franosi o molto acclivi”. Limitavano le altezze a 10 metri, vietavano le sopra-elevazioni, imponevano strade larghe minimo 10 metri. Prescrizioni boicottate e sepolte sotto il menefreghismo generale.

Centotredici anni dopo, il terremoto con più vittime al mondo non ci ha insegnato un bel nulla, anzi ha lasciato l’eredità vergognosa dei baraccati messinesi sopravvissuti per generazioni al re e al fascismo, a due guerre mondiali e a 67 governi della Repubblica. Sistemazioni passate di padre in figlio, e sempre rabberciate con l’ingegneria della povertà. Una vergogna mondiale. Come l’edilizia tra Calabria e Sicilia con moltissimi edifici tirati su alla meglio o abusivi e non in grado di resistere neanche alla forza di un sisma non importante. Basterebbe ricordare la Valle del Belìce rasa al suolo da una scossa da 6,1 magnitudo con 231 morti il 15 gennaio del 1968, o il Natale del 2018 con le scosse etnee che buttarono giù case e chiese in 6 paesi, ed è una delle 8 nostre aree dove sono in corso faticosissime e lentissime ricostruzioni post-sisma.

La perdita di memoria, insomma, ha fatto sparire la drammatica ciclicità dei terremoti italiani che hanno raso al suolo, dal Medioevo ad oggi 4.800 centri abitati, molti dei quali più volte distrutti e più volte ricostruiti ma, salvo rarissimi casi, senza tecniche antisismiche, e “dove erano e come erano” e cioè sulle stesse faglie più rischiose. Dall’Unità d’Italia, come emerge dall’accurato studio di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, dagli archivi della Protezione Civile e dell’Ingv e del Cnr, dal 1861 a oggi abbiamo subìto 36 grandi terremoti, in media uno ogni 4,5 anni, oltre a 170 terremoti minori che nei soli ultimi 26 anni hanno colpito 1.760 aree urbane, e 40 città con oltre 30.000 abitanti, dimostrano la facilità delle devastazioni, e sbattendoci continuamente in faccia la nostra plateale e cronica vulnerabilità e passività.

Dovrebbe spingerci nel recupero del tempo perduto e verso la massima prevenzione anche il ricordo delle tragedie del 23 novembre 1980 quando alle 19:38 l’Irpinia crollò distrutta da un sisma di magnitudo 6,5 e tra Campania e Basilicata i morti furono 2.914; del 6 aprile 2009 quando alle 3,32 il sisma fece esplodere L’Aquila e le zone circostanti con magnitudo 6,3 e furono altri 309 morti; del 20 e del 29 maggio 2012 quando 7 terremoti di magnitudo superiore a 5 provocarono 27 morti in Emilia; il 24 Agosto 2016 quando alle 3.36 il sisma di magnitudo 6.0 colpì Umbria, Lazio e Marche con interi paesi rasi al suolo e 303 morti.

Qual è oggi lo stato della prevenzione e della sicurezza sismica in Italia? Imbarazzante. Su 14.515.795 edifici residenziali per un totale di 31 milioni di abitazioni, il 40% è nelle fasce sismiche 1 e 2 a rischio più elevato, oltre metà risalgono a prima del 1974, cioè quando si edificava anche senza regole e spesso nemmeno piani regolatori. Tra i 4 e i 5 milioni di edifici sono a rischio lesioni o crolli parziali o anche di collasso sismico totale. Il Sud presenta il carico edilizio peggiore con il 45% di rischiosità del costruito nazionale pre-1971, il 22% è al Centro, il resto al Nord. Lo stock più scadente e illegale è stato però condonato da 4 sanatorie edilizie (1985, 1994 e 2003, più il 2018 per l’isola d’Ischia), e graziato dal continuo boicottaggio parlamentare della “Carta d’identità” di ogni fabbricato con annessa certificazione antisismica.

Con queste premesse è evidente che la nostra edilizia crolla anche a magnitudo più basse come il 3.9 di Ischia che il 21 agosto 2017 lasciò 2 morti e 42 feriti sotto le case crollate come burro. Se in gran parte dell’Italia la sismicità, fortunatamente, non è elevata, essa è pur sempre pericolosa se confrontata alla qualità del costruito. Il nostro patrimonio edilizio, soprattutto nei centri storici, è particolarmente vulnerabile per vetustà e realizzazioni con materiali scadenti, tipologie di costruzione, e stato di manutenzione. Servirebbero campagne di diagnostica degli edifici, cantieristiche anche leggere con tecnologie non invasive di cui siamo inventori e maestri nel mondo per programmi di adeguamento sismico. Ma facciamo poca prevenzione, scansiamo il problema e la passività sconfina nell’illusione che per fermare le forze terribili della natura bastino scongiuri, dita incrociate, toccatine di ferro, ferri di cavallo, cornetti di corallo, zampe di coniglio, “l’adda passà a nuttata”.

L’alibi per non far nulla è poi sempre stato quello dei soldi che mancano. Un clamoroso falso storico ed economico, che però ha prodotto la politica del rinvio permanente e aumentato morti e danni. L’investimento complessivo necessario per mettere nella massima sicurezza l’edilizia italiana più a rischio da una scossa con magnitudo L’Aquila 2009, cioè 6.3, ha un valore di 100 miliardi di euro (dati Consiglio nazionale degli ingegneri, e struttura di missione Casa Italia di Palazzo Chigi). Cifra impossibile? Non alla nostra portata? Un altro falso. Basterebbe ricordare che le sole ricostruzioni dei soli ultimi 3 grandi terremoti dei soli ultimi 14 anni stanno costando allo Stato oltre 53 miliardi di euro: L’Aquila 2009, 17.4 miliardi; l’Emilia 2012, 13 miliardi; il Centro Italia 2017: 23 miliardi. Siamo già oltre metà dei 100 miliardi, ma supereremo anche quelle previsioni di spesa, e già siamo nella media annuale dal dopoguerra ad oggi ad un gettito di oltre 4 miliardi di euro spesi dallo Stato solo per risarcire e riparare danni dai terremoti. Ma anche gran parte dei fondi del sisma-bonus paradossalmente sono sempre fermi nelle casse dell’Economia, e il boicottaggio parlamentare, unico nel mondo avanzato, abbatte ogni ipotesi di polizze assicurative anti-calamità, lasciando fare allo Stato la parte della più grande compagnia assicuratrice.

L’amara verità è che la nostra lunga storia catastrofica ha saputo finora solo produrre, e per fortuna nostra, almeno i più bravi ed esperti soccorritori della migliore Protezione Civile del mondo, di cui andare fieri e orgogliosi. Ma rimanere schiappe nel “prima” per il quale si batteva testardamente Giuseppe Zamberletti, non mettere al centro la cultura e le buone pratiche della prevenzione e dell’auto-protezione, con l’idiozia di averle anche espulse dalla didattica scolastica e dai doveri di noi italiani, alimenta solo i rischi. Che almeno le immagini struggenti della tragedia dei turchi e dei siriani riesca a farci capire che gli assassini non sono i fenomeni naturali, piuttosto il modo spregiudicato in cui non li fronteggiamo e buttiamo al vento i progressi eccezionali dell’architettura, dell’ingegneria, della sismologia, della geologia e di tanta formidabile tecnologia made in Italy che crea tanta sicurezza, ma solo nel resto del mondo.



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